L’aumento dell’offerta di contenuti audio diversi dalla musica – audiolibri, podcast, produzioni originali – e parallelamente dell’interesse dei fruitori, sta determinando una corrispondente crescita d’interesse verso i modelli di business che sostengono questi contenuti. E una messa a punto sempre più meticolosa di sistemi di monetizzazione che possano rendere quello dell’audio un mercato economicamente remunerativo.
Richard Yao, responsabile della strategia e dei contenuti della società di ricerca IPG Media Lab, ha tracciato su Medium una panoramica dello stato dell’audio oggi. Sebbene le sue considerazioni facciano riferimento specifico al contesto statunitense, le tendenze che evidenzia – anche perché spesso poste in essere da piattaforme che si rivolgono al mercato globale – si stanno manifestando anche in altri Paesi, soprattutto al seguito dell’effetto di accelerazione impresso dalla pandemia al consumo di contenuti vocali.
Come ricorda Yao, il report 2020 sullo stato dell'industria musicale statunitense della Recording Industry Association of America evidenziava, per i contenuti in streaming, il superamento della soglia dei 15 nuovi milioni di abbonamenti a pagamento attivati durante l’anno. Un numero record se comparato con le precedenti performance. I dati confermavano inoltre il costante spostamento dai dispositivi fissi a quelli mobili (smartphone in testa), che dal 2014 sono cresciuti del 67%.
A dati così incoraggianti le aziende di settore non possono che reagire spingendo in direzione della monetizzazione dei contenuti audio. Poco più di un mese fa Apple e Spotify hanno lanciato le loro soluzioni per i podcast a pagamento. Spotify, in particolare, lo ha fatto provenendo da un 2019 in cui aveva messo rapidamente a segno tre acquisizioni funzionali al proposito: Parcast, produttore di podcast specializzato nel genere true crime; Gimlet – società produttrice di alcuni successi audio distribuiti da Amazon – e Anchor. Senza dimenticare quell’attenzione all’advertising e alla profilazione dell’utente che proprio ultimamente la piattaforma ha deciso di approfondire anche ascoltando la voce dei suoi ascoltatori.
Per sistematizzare questo universo di attività, Spotify ha lanciato Audience Network, per consentire agli inserzionisti pubblicitari di lanciare e gestire campagne globali, targettizzate su larga scala, su tutti i prodotti e le tipologie di utenti della piattaforma. L’obiettivo è quello di sviluppare un approccio coordinato alla strategia, dando al cliente uno strumento di regia che gli consenta di progettare le proprie azioni in modo simile a quanto succede su Facebook e Google.
Ma non è la sola Spotify a compiere passi sulla via della monetizzazione dei contenuti audio parlati. Anche altri attori del settore continuano a sviluppare servizi podcast oriented per rafforzare i prodotti di tecnologia pubblicitaria e rimanere competitivi. Come iHeartMedia, che ha recentemente acquisito Triton Digital per 230 milioni di dollari: una company che si occupa tanto di produzione quanto di «misurazione dell’impatto» dei prodotti audio. Oppure Acast, una delle più grandi società di hosting e monetizzazione di podcast, che ha acquistato RadioPublic, una startup tecnologica focalizza sulla produzione vocale e sulle inserzioni pubblicitarie automatizzate.
Ci sono poi altri due aspetti che Richard Yao evidenzia nel suo articolo per tratteggiare l’evoluzione del segmento dell’audio parlato oggi: da un lato l’ascesa del social audio; dall’altro la questione dei creator.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la comparsa e la repentina diffusione di Clubhouse – l’app di social networking basata sul chat audio arrivata in Italia all’inizio di quest’anno – ha dato il via alla corsa all’audio social tanto per le piattaforme generaliste già esistenti (come Facebook), quanto per i probabili futuri competitor. Si tratta però di un modello lontano da quello di realtà come Spotify, perché per crescere e prosperare Clubhouse deve puntare, almeno al momento, su un ampliamento massivo – e forse un po’ indiscriminato – dei contenuti: una logica diversa da quelle delle piattaforme che vogliono proporsi alle aziende come affidabili partner pubblicitari.
Al tema del social audio è poi intrinsecamente connesso quello dei contenuti generati dagli utenti. In realtà entrambi i formati nativi dell’audio digitale – social audio e podcast – sono fortemente interessati dal fenomeno della creazione dal basso, che però diventa la norma nel caso delle app di chat audio. L’attività dei creator, in generale, è cresciuta parallelamente alla crescita del web conversazionale, e si è infittita significativamente negli ultimi anni poiché le nuove piattaforme hanno drasticamente ridotto la barriera all’ingresso per la creazione e la distribuzione di contenuti.
A questa dinamica però non è corrisposta – o quantomeno non in maniera proporzionale e adeguata – la strutturazione di un sistema di remunerazione solido per i creatori di contenuti, che al momento sono più di 50 milioni in tutto il mondo. Le eccezionali circostanze della pandemia hanno spinto una fetta crescente di loro a rivolgersi a piattaforme come Twitch e OnlyFans per monetizzare la fruizione dei loro contenuti, ma affinché l’ecosistema si rafforzi nel complesso sono necessarie nuove tecnologie e nuovi modelli di business.
Ciò che è fondamentale, avverte Yao, è preservare la specificità di ciascun formato, anche nel momento in cui ci si mette alla ricerca del sistema per renderlo remunerativo. «Cercare di adattare il modello supportato dalla pubblicità ai nuovi formati audio correrebbe il rischio di ignorare le loro specificità. Il podcast è sostanzialmente diverso da un talk show radiofonico e l’audio social è sostanzialmente diverso dai podcast. Invece di seguire la strada dei media audio tradizionali e imporre un modello basato sulla pubblicità su tutti i formati, è importante considerare gli altri tipi di monetizzazione che stanno emergendo dai creatori di contenuti: come gli abbonamenti diretti, le microtransazioni per l'accesso à la carte e il sostegno al progetto sotto forma di tip».
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi coordino il Giornale della libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.
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