Alla fine del 2019 Spotify ha lanciato la funzione «I tuoi podcast giornalieri», che suggerisce agli utenti che ne hanno già ascoltato qualcuno come procedere nell’esplorazione. Un segnale chiaro, che ribadisce con nettezza l’interesse manifestato dalla piattaforma a posizionarsi sul mercato dei contenuti editoriali audio.
D’altronde, più di un anno fa – quando aveva già oltre 200 milioni di ascoltatori – Spotify aveva stimato che nel futuro prossimo il 20% del suo pubblico avrebbe fruito contenuti diversi da quelli musicali. Da qui la decisione di stanziare, per l’anno da poco concluso, un fondo da 500 milioni di dollari per espandersi in questa direzione.
Un’espansione che si è orientata subito verso l’arricchimento del catalogo, puntando soprattutto alla produzione di contenuti originali. E l’approccio – condiviso peraltro con gli altri player dell’intrattenimento, sia nell’arena dell’audio che del video – è strategico rispetto all’intero modello di business di Spotify, non alla sola divisione podcast. Soprattutto se si tiene conto dei bassi margini di guadagno provenienti dallo streaming di album, pezzi e canzoni prodotti dalle principali etichette discografiche operanti al mondo (Universal, Sony, Warner ed EMI) e distribuiti in licenza dalla piattaforma.
Se il primo sguardo è stato ai contenuti, il secondo è alla pubblicità. Sembrerebbe, infatti, che Spotify stia usando i big data e l’accurata profilazione delle abitudini e delle diete mediali dei suoi utenti per vendere agli inserzionisti spazi pubblicitari molto verticali. E per raggiungere gli utenti con sponsorizzazioni molto mirate.
L’infrastruttura tecnologica alla base dell’operazione è racchiusa nel software Spotify Podcast Ads. I dati verranno gestiti e incrociati in modo tale che – esemplificando – due persone alle prese con l’ascolto dello stesso podcast, magari nella stessa stanza, ma da due account diversi, possano ricevere due contenuti pubblicitari differenti. Calibrati sulla cronologia dei loro ascolti e delle loro preferenze, sul profilo demografico di ciascuno e sulla routine di fruizione registrata dalla piattaforma.
Per quanto riguarda gli inserzionisti, le aziende che utilizzeranno questo sistema di adv riceveranno una reportistica molto più dettagliata sui risultati e l’impatto della loro campagna: dal numero di volte in cui gli utenti hanno ascoltato l'annuncio all’aggregato dei dati significativi sul profilo del pubblico e i suoi comportamenti.
Rispetto ai dubbi sulla tutela della privacy che questa pratica – e altre simili – possono sollevare, Jay Richman, vicepresidente e direttore pubblicitario di Spotify, sottolinea che gli utenti hanno sempre la facoltà di revocare alla piattaforma l'autorizzazione ad accedere ai loro dati con queste finalità.
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi coordino il Giornale della libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.
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