Ha chiuso il 2020 con una perdita netta di 581 milioni di euro (contro i 186 del 2019) ma va detto che è stato un anno difficile per molti, anche tra i colossi. Peraltro, remunerare le etichette discografiche quando distribuisci gli album delle star più blasonate al mondo non dev’essere cosa di poco conto. Eppure – nonostante qualche difficoltà a tarare il proprio modello di business, che ha spinto a ritoccare le tariffe di alcuni piani d’abbonamento – nell’anno del Covid Spotify ha visto crescere del 24% i suoi utenti paganti. Oggi sono 155 milioni dei 345 che usano la piattaforma.
La company svedese appare sempre ben focalizzata sulle sue possibilità di sviluppo, che da qualche anno ha indirizzato convintamente (anche) ai podcast, con una serie di acquisizioni mirate a inglobare know how e tecnologie per la produzione (anche) di contenuti originali.
Un altro ambito – complementare – che Spotify esplora con una certa sistematicità è quello dell’accurata profilazione degli utenti: sia per accrescere le sue capacità «predittive» e metterle al servizio del prossimo ascolto da suggerire, sia nell’ottica dell’advertising e di una maggiore capacità di monetizzare la vendita di spazi e servizi pubblicitari.
Si muove sicuramente in questa direzione il progetto in vista del quale Spotify ha richiesto – due anni fa – e ottenuto – negli ultimi giorni – il brevetto per una tecnologia capace di «identificare gli attributi di gusto da un segnale audio». La notizia è stata condivisa dal sito d’informazione sul settore musicale Music Business Worldwide e l’idea della piattaforma di audio streaming dovrebbe essere grossomodo la seguente: realizzare un sistema grazie al quale captare la voce di chi sta ascoltando i suoi contenuti e i suoni ambientali che circondano l’utente.
Insomma, Spotify vuole capire – e vuole farlo con informazioni più personali e vibranti rispetto a quelle offerte dagli asettici dati di utilizzo – quali sono le emozioni che gli ascoltatori provano quando si relazionano con una traccia audio distribuita dalla piattaforma. Ma anche in che contesti ambientali si stanno dedicando all’ascolto e, potenzialmente, con cosa interagisce e compete l’ascolto mentre sta avvenendo.
Nell’epoca degli assistenti vocali virtuali non è certo una novità che la voce dell’utente diventi una traccia da studiare per conoscerlo e profilarlo meglio: con tutte le implicazioni per la privacy che la cosa comporta. Ma è ugualmente interessante notare che l’implementazione di una simile tecnologia da parte di un player (il player) dell’audio chiuda idealmente il cerchio attorno alla voce. Ribadendo da un lato la centralità che questo driver ancestrale va ad assumere nella nostra quotidianità di produttori e fruitori di contenuti. Dall’altro ricordandoci che la nostra voce può offrire alle aziende dati molto interessanti, molto sensibili e molto redditizi.
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi coordino il Giornale della libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.
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