Si è appena conclusa l’ultima edizione del BookExpo America (Bea) uno dei principali appuntamenti di settore dell’anno che, come di consueto, ha visto la presenza di una nutrita delegazione italiana grazie alla collaborazione di Ice - Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e dell’Associazione italiana editori che hanno curato la presenza dell'Italia in uno spazio espositivo di circa 110 mq presso lo Jacob K. Javits Center di New York.
Abbiamo chiesto ad Alfieri Lorenzon, Direttore di Aie, quali sono stati gli «hot topics» di quest’anno.
Quali tendenze ha visto definirsi nel mercato americano?
Al di là del solito successo riscontrato dal self publishing, la cosa che mi ha colpito maggiormente è il modo in cui si va riposizionando l'editoria digitale: anche in USA, ormai, il futuro del settore non viene più identificato univocamente con il solo digitale, piuttosto l’editoria digitale si sta riconfigurando come una delle arterie di sviluppo del settore. Un segno forte di questa inversione di rotta lo si può leggere nel ridimensionamento dello spazio dedicato ad Amazon, mentre in parallelo gli editori americani hanno riservato grande attenzione ai prodotti cartacei con progetti anche molto belli e innovativi.
Qual è la sua impressione sul clima che si è respirato al BookExpo?
Sicuramente il Bea rimane un ottimo osservatorio sull’editoria anglosassone. Gli stand delle grandi case editrici americane, come tutti gli anni, hanno riscosso un grande successo di pubblico e hanno proposto eventi e allestimenti di forte impatto. Sicuramente un po’ di crisi si è sentita non tanto negli stand dei grandi gruppi, dove per lo più si è ridotto l’investimento per i gadget promozionali ma non certo il desiderio di stupire con spazi e allestimenti grandiosi, quanto piuttosto nell’assenza di alcuni editori indipendenti per i quali i costi espositivi si sono probabilmente rivelati troppo onerosi. Tuttavia ho visto grande voglia di partecipare da parte del pubblico, sia di settore che generico (ricordo che quest’anno ha avuto un grandissimo successo il BookCon aperto sia a professionisti che a comuni lettori, tanto che è già stata mandata comunicazione del fatto che il prossimo anno verrà ampliato a due giorni), con code interminabili agli stand per le copie autografate e per incontrare i vari autori. Anche alcuni autori italiani hanno avuto un buon seguito di pubblico e questo è un fatto molto positivo perché l’editoria americana è estremamente autarchica.
Cosa intende?
Ai lettori americani piace molto leggere libri di autori americani e spesso quindi gli editori sono poco attenti a ciò che viene pubblicato all’estero. Questo è dovuto anche alla conformazione del mercato editoriale che negli States è molto più mass market che in Europa. In un certo senso si potrebbe dire che il mercato americano non vive tanto di autori quanto di «star» il cui brand coltivato dagli editori o, dal basso, da blogger e dal passaparola sui social network, è garanzia di successo e impone dunque una certa serializzazione dello storytelling che lascia poco spazio alla scoperta di nuovi autori, magari italiani.
A questo proposito, come si sta muovendo la nostra editoria negli USA?
Storicamente il mercato anglosassone in senso lato è abbastanza difficile da penetrare. Faccio solo un esempio: nel mercato ragazzi che, come è noto, è uno dei settori più dinamici della nostra editoria, solo il 2% dei diritti venduti nel 2013 sono arrivati in Nord America contro il 67% venduti in Europa e il 19% in Asia. Durante quest’ultima edizione del Book Expo ho notato però una certa curiosità per il nostro Paese e i nostri autori, merito anche dell’intenso lavoro fatto dagli editori italiani che hanno strutturato molteplici occasioni di incontro tra le due editorie. Sono convinto che un lavoro più sistematico – penso ad esempio al lancio del nuovo sito BooksInItaly, nato da un'iniziativa del Ministero degli affari esteri, del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e in collaborazione con Associazione italiana editori e la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadorio, o all’intensificarsi dei contatti e delle relazioni con l’Ice di Chicago che è tra i nostri prossimi obiettivi – in questo senso porterebbe a ottimi risultati.
È di questi giorni la notizia della fusione delle agenzie Wylie-Bancelles che, di fatto, è solo l’ultima di una serie di acquisizioni che hanno interessato il settore a livello globale. Qual è la sua opinione?
In un mercato profondamente colpito dalla crisi credo sia inevitabile. Passeggiando per gli stand della fiera ho però notato una cosa interessante: molto spesso, al di là delle fusioni interne che indubbiamente hanno coinvolto lo staff delle case editrici, i grandi gruppi hanno scelto di mantenere e valorizzare le peculiarità dei singoli marchi acquisiti.
Tra i temi più discussi c’è stato il braccio di ferro tra Amazon e Hachette. Cosa ne pensa?
Penso che, proprio come accadde con un altro editore, Macmillan, qualche anno fa, si tratti di qualcosa che avremmo dovuto aspettarci. È chiaro infatti che gli interessi di un sistema distributivo che detiene una parte così significativa del mercato americano, secondo le ultime ricerche oltre il 60%, non possano che entrare in conflitto con quelli degli editori. In ogni caso ritengo che in ogni relazione commerciale, anche in quella tra la creatura di Bezos e gli editori americani, non si debba mai arrivare a superare certi limiti e di certo, come più volte è stato ricordato durante il Bea (penso all’intervento di James Patterson sul fatto che Amazon si stia trasformando in un monopolio o a quello del presidente dell’American Booksellers Association, Oren Teicher, a proposito dell’atteggiamento intimidatorio del retailer), in questo caso li si è superati.