È il 1977 quando il giornalista e scrittore irlandese-americano Alexander Cockburn utilizza per la prima volta l’espressione gastro porn, e lo fa in un irriverente articolo per il «New York Review of Books» sulla moda dei cookbook del tempo. In particolar modo, si serve del neologismo per descrivere le preparazioni di Paul Bocuse. «È vero – scrive Cockburn in un passaggio – non puoi trovare gamberi freschi negli Stati Uniti o addirittura tartufi neri, ma non importa. Le delizie offerte dalla pornografia sessuale sono altrettanto irraggiungibili».
Nel 1984, invece, la critica femminista Rosalind Coward scrive l’espressione food porn nel suo libro Female desire: women's sexuality today, definendo «pornografia alimentare» l’attenzione estrema, quasi morbosa, riservata alla presentazione dei cibi, segnale di uno slittamento dal concetto di cibo come dono a cibo come piacere estetico.
Ammiccante, attraente, provocante, l'estetica dei piatti è diventata una tendenza, favorita – prima che dai social media – dal fatto che, nella società dei consumi, la moderna soggettività non si esprime tanto nell’atto materiale dell’acquisto, quanto nella ricerca e nella pubblica condivisione del piacere. Anche nel food porn, infatti, è l’anticipazione, piuttosto che l’esperienza, a divenire centrale.
Non è un mistero che negli ultimi anni lo spazio dedicato al cibo – tanto nell’intrattenimento quanto nel dialogo pubblico – sia aumentato incredibilmente. Una tendenza intercettata e alimentata da reti televisive, broadcaster e publisher di ogni tipo. Il cibo monopolizza i palinsesti televisivi, indugiando spesso su risvolti voyeuristici, e l’attenzione all’estetica di quello che mangiamo (o non mangiamo) s’insinua nella nostra quotidianità, suggerendoci tanto comportamenti quanto consumi, indirizzando il nostro interesse ed entrando – talvolta di prepotenza – nel nostro campo visivo e nel nostro tempo libero.
Il food è diventato uno dei topic più ricorrenti tra quelli trattati dagli utenti dei social network. In questo momento le occorrenze per #foodporn su Instagram sono quasi 125 milioni: numeri simili caratterizzano gli altri social media, soprattutto quelli dalla più spiccata componente visuale.
Non è strano che gli editori e i produttori di contenuti dedichino spazi specifici al tema del cibo, alla ricerca – su ogni piattaforma – del favore di un pubblico ormai molto numeroso. Fra i progetti di maggior successo, destinati a «fare scuola» e a creare un vero e proprio canone espressivo, c’è sicuramente Tasty.
Il format di BuzzFeed dedicato al food porn (ricordiamo che il mastodontico sito di news statunitense deve ben il 75% del suo traffico online alle condivisioni sui social) nasce un paio d’anni fa con una serie di video brevi, dove le ricette sono raccontate con un montaggio rapido e veloce, che rende più accattivante il risultato. La logica è innovativa rispetto al normale trattamento riservato ai temi culinari, e si inserisce perfettamente nella scia di quella gastropornografia di cui scriveva Alexander Cockburn.
Ad accompagnare la preparazione – rigorosamente ritratta dall’alto e sempre in soggettiva (del cuoco si vedono solo le mani, facilitando l’immedesimazione dello spettatore: anche questo un espediente mutuato alla pornografia) – ci sono pochissime informazioni su ingredienti, quantità e tempi di cottura. Lo scopo del video, insomma, non è insegnare a cucinare, ma intrattenere, ingolosire, incuriosire. In definitiva: farsi guardare. Ogni filmato si conclude con il momento dell’assaggio (anche quello suggerito, ma mai mostrato: il morso toccherà idealmente all’utente) e una voce maschile fuoricampo che pronuncia un appagato Oh yes!
Il successo del progetto ha spinto BuzzFeed a lanciare diversi spin off: Tasty Japan, Bien Tasty per la cucina spagnola, Tasty Demais per quella portoghese, Einfach Tasty per quella tedesca, Proper Tasty per quella britannica, Tasty Junior per i più piccoli, Tasty Happy Hour per l’aperitivo, Tasty Fresh per le ricette estive e altri ancora.
Gran parte del successo di Tasty arriva sicuramente dalla natura del format, particolarmente adatto a Facebook. L’autoplay aiuta e favorisce la fruizione del video, attirando l’attenzione dell’utente senza richiedergli di compiere un gesto – fosse anche un semplice click o tap – che magari, dovendo scegliere, non avrebbe fatto. Per come sono concepiti, la traccia audio dei filmati è assolutamente accessoria, confermando quella tendenza a una fruizione quasi inconsapevole, diluita nell’incessante stream di stimoli offerti dal Facebook, ma non per questo meno calamitica.
E poi il food mostrato da Tasty è comfort per eccellenza – soprattutto per il pubblico statunitense, cui in prima battuta si rivolge –, vicino alla tradizione e ai ricordi d’infanzia, ma al contempo semplice da replicare. Di certo le ricette mostrate non parlano ai palati gourmet, mentre l’onnipresenza delle mani maschili intente a cucinare e l’abbondanza di grassi saturi fanno pensare che il target di riferimento sia quello degli uomini single.
La moda è stata lanciata, la sfida raccolta. Tanti i produttori di contenuti che, in tutto il mondo, hanno puntato sul video à la Tasty. Tra quelli italiani, ricordiamo Casa Surace, collettivo napoletano recentemente acquisito da Netaddiction che, reinterpretando in chiave ironica i capisaldi della cucina meridionale, con un lessico che occhieggia alla fun base e continue inside joke, guarda con intelligenza al video marketing.
Perché se i video a base di food porn sono facili alla viralizzazione, la conversione in guadagno non è altrettanto immediata. Lo sbocco naturale, lo abbiamo considerato anche altre volte, è quello del contenuto sponsorizzato, naturalmente bilanciando bene la formula dal lato dell’entertainment. Ma i risultati non sono scontati né facili da misurare. Una prova è rappresentata dal fatto che anche il celebre format di BuzzFeed, per monetizzare, abbia a un certo punto messo in vendita diversi libri contenenti un più analitico svolgimento delle video ricette e una serie di gadget disponibili nella sezione e-commerce del proprio sito.
La prossima frontiera? Forse quella del food tech. Per esempio Watson, l’intelligenza artificiale sviluppata da IBM, ha «imparato a cucinare» (o meglio, a suggerire ricette) digerendo il database del magazine «Bon apétit»: a perfezionarla penseranno i commenti degli utenti che il software interpreterà semanticamente. Ma basta pensare anche al semplice utilizzo dello smartphone in cucina, oramai piuttosto sdoganato. Soprattutto dai Millennials, che si servono spesso di comandi vocali e assistenti virtuali per controllare ingredienti e passaggi in tempo reale.
Per non parlare, poi, di Moley, il braccio robotico da cucina che impara le ricette e le realizza da sé, mimando le mosse – è proprio il caso di dirlo – dei grandi chef. Dopo lo sviluppo ingegneristico del congegno, durato diversi anni, nel 2018 potrà essere comodamente controllato da iPhone, attraverso un’app che gli impartirà le istruzioni per realizzare decine e decine di ricette adeguate all’intero ventaglio dei gusti, delle esigenze alimentari e degli stili di vita dei commensali.
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi coordino il Giornale della libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.