Cresce la vendita di diritti di edizione di autori italiani all’estero: +8,7% tra il 2018 e il 2019. Che si sia di fronte a un fenomeno strutturale lo abbiamo sottolineato più volte. La crescita media annua dal 2001 – anno in cui si è iniziato a monitorare il fenomeno – è del +20,9%. Con una frase a effetto possiamo dire che c’è oggi più Italia in Europa di quanta ce ne fosse solo 18 anni fa: nel 2001 si vendevano 1.800 titoli, oggi 8.569.
Questo non vuol dire che l’editoria italiana stia diventando un’editoria autarchica. Tutt’altro. I titoli di cui si sono comprati diritti esteri nel 2019 sono ben 9.648, con un +3,1% rispetto al 2018. I dati relativi all’Osservatorio 2019 sull’import-export di diritti, realizzato dall’Associazione Italiana Editori sono stati presentati oggi a Più libri più liberi durante l’incontro Dalla vendita di diritti, alle coedizioni, alle fiere internazionali. I tanti volti dell’export.
In alcuni settori gli editori italiani vendono più di quanto comprano, come nel caso dei libri per bambini e ragazzi, in cui tra 2011 e 2013 si consuma il «sorpasso», avvenuto per i libri illustrati già nei primi anni Dieci del nuovo secolo. Ora un nuovo impulso sembra venire dalla narrativa: se nel 2001 vendevamo 234 titoli di autori italiani all’estero, oggi sono 3.256 (+71,7% in media annua e +5,9% rispetto al 2018).
Il settore bambini e ragazzi e la narrativa da soli rappresentano il 64,3% dell’export. Cresce anche la saggistica (+9,2% e 21% in termini di quota di mercato). È evidente che dietro a questi valori e alla crescente attenzione dei colleghi europei verso la nostra produzione c’è una maggiore efficienza del sistema delle fiere – non ultimo l’articolato programma del Fellowship di Più libri – e la creazione di competenze specifiche all’interno delle case editrici, anche in quelle più piccole. Nel 2014 fatto pari a 100 la vendita di diritti l’11% era dovuto a piccole e medie case editrici. Oggi questa percentuale è arrivata al 24%.
In questa dinamica un ruolo importante viene confermato dalla partecipazione alle fiere internazionali. Senza voler stabilire una relazione di causa/effetto (partecipazione allo stand collettivo/aumento delle vendite di diritti all’estero), non possiamo far a meno di notare che per i cinque casi campionati si passa nell’anno pre-fiera da una vendita complessiva verso quei Paesi (o verso il gruppo di Paesi afferenti alla manifestazione) di 490 titoli nel 2014 a 2.391 nel 2019. Certo, non sappiamo se la vendita dei diritti è avvenuta in occasione della fiera, o in un momento successivo (a Londra piuttosto che a Francoforte), né se i titoli che sono stati venduti sono relativi alle case editrici che esponevano o partecipavano alla missione, ma la crescita media del +77,6% rispetto alla media di crescita dell’export del 12,3% (rispetto al 2014) indica chiaramente le potenzialità che queste manifestazioni hanno per l’internazionalizzazione dell’editoria italiana.
Cosa emerge da questa ennesima indagine sui diritti e da una osservazione dei più complessi processi di internazionalizzazione che la nostra editoria sta attraversando tra il primo e il secondo decennio del XXI secolo? Innanzitutto risulta evidente l’importanza di una definizione delle politiche a favore dell’internazionalizzazione e dell’interscambio di diritti senza cui nessuna editoria può crescere e svilupparsi. È necessario costruire una visione strategica unitaria, risultante dall’analisi combinata di tre variabili: il genere di libri, l’area geografica con la quale si instaura un rapporto e la dimensione delle imprese.
È anche opportuno leggere questo fenomeno in combinazione con altri due elementi: la varietà delle tipologie di opere di cui si esportano i diritti – in questo caso probabilmente la varietà d’offerta presente nei cataloghi potrebbe costituire un importante elemento da valorizzare più di quanto non si sia fatto fino a oggi – e la dispersione dell’export in un numero molto elevato di imprese (e di Paesi), la maggior parte delle quali vende pochissimi titoli l’anno. Ciascuna impresa può quindi avere l’impressione della non economicità di iniziative di questo genere: facendo un semplice media, i titoli venduti per piccoli editori è compresa tra 4 e 5.
L’insieme di questi dati suggerisce che c’è un problema relativo ai costi di transazione per gran parte del nostro tessuto imprenditoriale. Nei mercati piccoli il rapporto tra i costi connessi alla negoziazione e all’amministrazione dei diritti (contatti preliminari, firma del contratto, verifica dell’affidabilità dei partner, controllo dei rendiconti provenienti dall’estero, spese di recupero crediti, rendicontazione all’autore) e i ricavi medi ottenibili è sfavorevole. I primi sono relativamente indipendenti rispetto all’ammontare dei ricavi: quando questi ultimi sono mediamente bassi per ciascun titolo, l’incidenza dei costi di transazione rischia di essere molto elevata, rendendo antieconomico lo sfruttamento dei diritti di traduzione. A ciò si aggiunge che – per molti editori – è difficile avere sufficiente massa critica (anche in ragione dei bassi margini) che possa rendere conveniente lo sviluppo di una strategia di marketing specifica per il mercato dei diritti.
Le imprese si trovano quindi nella necessità di operare investimenti in strategie di sviluppo che potranno essere profittevoli in futuro, ma che nell’immediato hanno spesso un conto economico di difficile equilibrio.
In questo senso un più efficace sostegno alle traduzioni per gli editori stranieri, un suo rifinanziamento può costituire uno degli strumenti validi per intervenire in questa direzione, accanto a missioni specifiche, e alla messa a sistema delle editorie emergenti che stanno investendo in modo massiccio nell’internazionalizzazione, anche grazie a un forte supporto pubblico. È dunque necessario che l’Italia compia sforzi altrettanto importanti, mettendo in campo i propri punti di forza.
Questo è ancora più vero perché il processo di internazionalizzazione non si esaurisce nella vendita di diritti. Abbiamo le coedizioni (soprattutto nel settore bambini con il 65,6% e in quello dell’editoria d’arte con il 18,7%), i libri italiani venduti all’estero (quelli in cui il codice linguistico all’interno del codice ISBN è pari a 88 e che rappresentano circa 48 milioni di euro di export). Abbiamo inoltre l’export di libri in lingua straniera realizzati da editori italiani per il mercato internazionale su tematiche molto di nicchia (italianistica, storiografia, arte antica, ecc.): erano 1.611 i titoli pubblicati nel 2010, nel 2018 sono diventati 3.445, con una produzione complessiva passata dal 2,8% al 4,6%: Fonte: Istat). Senza dimenticare i libri realizzati da editori e stampatori italiani per conto di case editrici straniere, ma che inglobano nei 441 milioni di valore anche la manualistica d’uso per elettrodomestici e simili. Tutta assieme la parte editoriale a fatica sfiora il 5% del fatturato complessivo dell’editoria italiana. Una quota troppo bassa rispetto a valori che altre editorie possono vantare anche grazie a cospicui numeri di lettori e clienti al di fuori dei confini nazionali, come per esempio i mercati anglofono, francofono e ispanofono. Cosa che noi non possiamo certo avere.
Le slide relative all’incontro Dalla vendita di diritti, alle coedizioni, alle fiere internazionali. I tanti volti dell’export sono disponibili nella sezione Presentazione del sito.
Foto di sfondo: ©Musacchio, Ianniello & Pasqualini
Mi sono sempre occupato di questo mondo. Di editori piccoli e grandi, di libri, di librerie, e di lettori. Spesso anche di quello che stava ai loro confini e a volte anche molto oltre. Di relazioni tra imprese come tra clienti: di chi dava valore a cosa. Di come i valori cambiavano in questi scambi. Perché e come si compra. Perché si entra proprio in quel negozio e si compra proprio quel libro. Del modo e dei luoghi del leggere. Se quello di oggi è ancora «leggere». Di come le liturgie cambiano rimanendo uguali, di come rimanendo uguali sono cambiate. Ormai ho raggiunto l'età per voltarmi indietro e vedere cosa è mutato. Cosa fare da grande non l'ho ancora perfettamente deciso. Diciamo che ho qualche idea. Viaggiare, anche se adesso è un po' complicato. Intanto continuo a dirigere l'Ufficio studi dell'Associazione editori pensando che il Giornale della libreria ne sia parte, perché credo sempre meno nei numeri e più alle storie che si possono raccontare dalle pagine di un periodico e nell'antropologia dei comportamenti che si possono osservare.
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