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Lettura

Come mai la lettura non è più veicolo di promozione sociale? Intervista a Bruno Arpaia e Roberto Ippolito

di L. Biava notizia del 4 febbraio 2014

Gli ultimi dati diffusi da Istat poche settimane fa hanno fotografato nel 2013 un pericoloso calo della lettura. Un «meno» che pesa come un macigno nella pur ricca selva dei picchi negativi che sembrano descrivere praticamente ogni aspetto del mercato editoriale nazionale e che va a incidere direttamente sul fragile bacino della nostra industria culturale.
Per il momento la politica di sviluppo della lettura non è stata in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati e molto resta ancora da fare sotto questo aspetto. Un primo passo è stata la costituzione del Tavolo interistituzionale, di cui Aie fa parte, dal quale ci si aspetta la definizione del nuovo Piano nazionale di promozione della lettura varato dal Ministro Bray ma per il momento la cosa più preoccupante dei dati diffusi da Istat è che non si tratta di un «meno» isolato ma piuttosto di un trend in cui l'eccezione pare essere (ahinoi!) la crescita registrata nel 2012.
Ma quand'è che la lettura ha cessato di essere considerata veicolo di promozione sociale? Mentre nei Paesi in via di sviluppo come l'India, la Cina o il Brasile (non a caso i mercati sui quali stanno puntando i grandi produttori di tecnologia come Kobo) i tassi di lettura crescono a due cifre, i Paesi del primo mondo, primo tra tutti gli USA, hanno visto rallentare e addirittura invertire rotta gli indicatori legati alla lettura.
Forse oltre che alla crisi economica, la colpa, come ricordava su «Repubblica» di ieri Ilvo Diamanti, potrebbe essere ricondotta del declino del ceto medio, un vero e proprio processo antropologico più che socioeconomico (se nel 2006 il 60% della popolazione si autocollocava nel ceto medio, oggi lo fa appena il 40%) che in qualche modo potrebbe aver contribuito a far perdere alla lettura quell'aura di strumento di automiglioramento e di promozione sociale. Per inquadrare meglio il fenomeno abbiamo chiesto un parere a Roberto Ippolito, editorialista e autore di Ignoranti (Chiarelettere) e a Bruno Arpaia, giornalista e autore de La cultura si mangia (Guanda) che abbiamo intervistato all'interno di un vasto speciale sulla lettura (tradizionale e digitale) pubblicato sul «Giornale della libreria» di febbraio.

Quali potrebbero essere le ricadute pratiche del calo della lettura per l’economia italiana?
Roberto Ippolito.
Le coincidenze colpiscono sempre la fantasia. E per rispondere alla domanda potrei farmi aiutare da loro. Così potrei parlare delle 351mila persone in più che nell’ultimo anno non sono riuscite a trovare un lavoro (in base ai dati Istat relativi a novembre 2013) e contemporaneamente del milione e 603 mila lettori in meno di almeno un libro sempre nel 2013. Che coincidenza, no?
Oppure si può dare un’occhiata a quello che accade in Sicilia: qui i lettori nel 2013 sono il numero più basso rispetto a tutte le altre regioni, con un calo di 97 mila unità in dodici mesi e parallelamente gli occupati sono -248 mila.
Ma la coincidenza quasi perfetta è quella della Puglia, che ha ceduto il primato negativo del 2012 di regione con meno lettori pur avendone perso per strada una quota consistente: nel 2013 la Puglia ha 89 mila lettori in meno e 100 mila occupati in meno.
Chi avesse poi voglia di guardare più indietro nel tempo noterebbe che la percentuale di lettori del 2013 in Italia è la più bassa dal 2005. Oggi la disoccupazione è del 12,7%, allora era del 7,6%. Che coincidenza, no? No. Non è il caso di rifugiarsi nelle coincidenze. Un Paese che legge così poco è un Paese che si inaridisce, che deteriora la qualità della vita, che non è creativo, che non fortifica il made in Italy, che non si dedica all’innovazione. Insomma svilisce l’economia.
Del resto l’Istat, esprimendosi con il suo gergo, ha comunicato che «i più bassi livelli di lettura si registrano in particolare tra i ritirati dal lavoro». Solo il 33,8% di loro ha terminato almeno un libro nel 2013. Nell’Italia che arranca accade dunque questo. Avere un misero 43,0% di lettori di almeno un libro in un anno dovrebbe far riflettere, oltre che (possibilmente) far vergognare. Le cadute ci sono state. Le ricadute pratiche della così diffusa distrazione nei confronti dei libri non potranno che essere pesanti: senza migliorare il nostro bagaglio non andiamo lontano. Ma nulla vieta di reagire, con l’aspirazione a non cadere più.

Perché le iniziative di promozione della lettura sembrano non avere sortito alcun effetto sui giovani e sui non lettori?

Bruno Arpaia
. L’unica cosa che non si può fare per (fingere di) promuovere la lettura è (fingere di) mettere insieme sotto un unico cappello iniziative già esistenti, sparse in tutt’Italia, tanto per «far numero» e dimostrare che si sta facendo molto. C’è bisogno, invece, di un Piano nazionale per la promozione della lettura di lungo respiro, ben coordinato e soprattutto ben finanziato.
Tutti dicono che la cultura è una priorità, ma poi è il settore che subisce più tagli. E senza un’inversione di tendenza generale nel Paese, senza la comprensione profonda da parte delle classi dirigenti che senza conoscenza non c’è sviluppo, ogni tentativo volontaristico sarà completamente inutile (come dimostrano le ultime cifre sulla lettura). Perciò, spero che la Commissione riunita dal Ministero possa avvalersi di questi indispensabili strumenti finanziari, che consentano di portare scrittori e libri nelle scuole, nelle biblioteche, nei musei, nei centri sociali (sì, nei centri sociali…), di stampare, per esempio, piccoli libri di qualità da distribuire in metropolitana o sui mezzi pubblici, di abbassare l’Iva sui libri elettronici o di favorire l’accesso a cinema e teatri, insomma di incentivare tutti i consumi culturali, che costituiscono un sistema integrato. Iniziative da realizzare, ce ne sarebbero moltissime: inutile farne l’elenco.
Tuttavia, secondo me, sono importanti lo spirito e il disegno con cui si realizzano: niente sguardo condiscendente o di sufficienza (o addirittura di rimprovero) nei confronti dei non lettori, e soprattutto niente contrapposizione tra nuovi media e libro (di carta o elettronico). Bisogna far passare l’idea che leggere diverte, arricchisce e non ti impedisce di stare su Facebook o di guardare video su YouTube. Il lavoro in profondità (scuole, biblioteche, eccetera) è fondamentale, ma andrebbe accompagnato anche da un lavoro «di superficie»: è mai possibile che il servizio televisivo pubblico non abbia una trasmissione sulla lettura? Si può, credetemi, realizzare un programma appassionante sui libri. Si possono, realizzare spot veloci ed efficaci con testimonial adatti. Basta volerlo, e investirci risorse. Ne va non solo del livello culturale di questo paese, ma del suo stesso futuro economico.

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