Il luogo comune vuole che, mentre in Italia si traduce molto, al limite dell’esterofilia, nei Paesi anglofoni accada il contrario, e risulti quindi molto difficile riuscire in primo luogo a farsi tradurre e in secondo luogo a farsi leggere. Eppure qualcosa si sta muovendo, e questo schema sembra essere in procinto di avviarsi verso una radicale, benché lenta, trasformazione.
Lo testimoniano i dati sulla compravendita dei diritti in Italia, che segnalano una forte crescita dei diritti venduti all’estero dai nostri editori e dalle nostre agenzie, e lo confermano i dati di mercato provenienti dagli altri Paesi. E ora anche in Gran Bretagna lo scenario sta cambiando, come conferma una ricerca dell’Arts & Humanities Research Council.
Lo studio, Translating the Literatures of Smaller European Nations: A Picture from the UK, 2014-16, è un’analisi fatta sul campo attraverso workshop con gli attori di tutta la filiera e studi sulla produzione del biennio, si è concentrato in particolare sui linguaggi europei «minori» e solitamente meno tradotti (come quelli dell’area balcanica e dell’Europa dell’est).
I risultati parlano di percentuali di libri in traduzione in netta ascesa, anche se non ancora abbastanza lontani dal noto 3% di titoli tradotti, usato ormai come cifra-feticcio: gli studi di Literature Across Frontier, citati nella ricerca, parlano di una percentuale attorno al 5% (ultimo aggiornamento maggio 2015), equivalente a una crescita del 69% nel numero di libri tradotti tra il 2000 e il 2012.
Questa crescita è in parte dovuta a una necessità, percepita soprattutto all’interno dello stesso ambito letterario-editoriale, di uscire dalla «zona sicura» rappresentata dalla narrativa anglofona (e dal predominio che in questa hanno gli Stati Uniti) e di confrontarsi con voci e storie nuove e diverse; si tratta soprattutto di editori di piccole-medie dimensioni, e di librai, che hanno deciso di scommettere sul possibile interesse dei lettori inglesi (com’è accaduto ad esempio con Siteg Larsson per l’editore Maclehose Press).
La peculiarità di questi piccoli-medi editori inglesi, il cui numero è aumentato nel corso dell’ultimo decennio, è che spesso sono stati fondati, o aiutati, da decani del settore (magari impegnati precedentemente nei grandi gruppi), che hanno portato strategie di marketing sofisticate e nuovi mezzi per portare all’attenzione del pubblico questi titoli che vengono percepiti come «di nicchia»; questo, unito al nuovo passaparola digitale, tra social network, blog e siti di critica letteraria, hanno dato vita a un ciclo virtuoso di promozione che ha permesso di portare discreti risultati anche per titoli che, un tempo, non sarebbero riusciti a raggiungere una base di lettori appropriata.
Questo aumento nella disponibilità di libri in traduzione, tuttavia, sta facendo sorgere una serie di riflessioni ulteriori sulla composizione dei titoli tradotti in Gran Bretagna. La maggior parte ovviamente viene dai mercati editorialmente più attivi e dalle lingue più note del continente – il francese soprattutto, seguito a ruota da tedesco, italiano, spagnolo, svedese e russo – e sono i titoli che più probabilmente andranno incontro ai gusti del pubblico; e proprio a causa di questo successo, che sta facendo scoprire ai lettori britannici i libri in traduzione, molti ora sperano che si riescano a pubblicare anche titoli provenienti di zone geografiche meno frequentate. Com’è accaduto in Italia, alcuni editori si sono specializzati su particolari territori: ad esempio Istros Books (specializzato in autori provenienti dal sud-est europeo), Jantar (letteratura ceca e slovacca), Norvik (letteratura scandinava) e Stork (autori del centro e dell’est Europa).
È chiaro, però, che si parla di un mercato ristretto rispetto alle cifre dell’editoria inglese in generale. Anche per questo molti sperano in un aumento dei fondi a disposizione (cui unire quelli erogati dai vari Paesi del mondo – che noi abbiamo raccolto in un’agile guida), con cui sostenere il lavoro fatto dai traduttori, in particolare quelli specializzati in lingue poco frequentate. E benché alcuni temano che interventi di questo tipo possano favorire titoli commercialmente più forti, e quindi mettere in ombra gli autori di Paesi meno «spendibili» a livello di marketing, è indubbio che una crescita di fondi costituirebbe un’ulteriore prova dell’attenzione che le istituzioni britanniche – e, di conseguenza, i lettori – dedicano a libri e realtà distanti dalla propria. «Il nostro progetto, alla fine» chiude lo studio «ha rappresentato le nostre scoperte relative al fatto che la forza, lo status e la varietà delle traduzioni letterarie in generale, e delle traduzioni di letterature europee minori in particolare, continuerà a crescere al meglio laddove i sostenitori trovino dei percorsi verso la cooperazione e la condivisione di ogni tipo di risorsa tra professionisti e tra letterature, e sviluppi strutture che incoraggino questo approccio». Una considerazione che, in fondo, non vale solo per il mercato britannico.
Laureata in Lettere moderne (con indirizzo critico-editoriale), ho frequentato il Master in editoria. Mi interessa la «vita segreta» che precede la pubblicazione di un libro – di carta o digitale – e mi incuriosiscono le nuove forme di narrazione, le dinamiche delle nicchie editoriali e il mondo dei blog (in particolare quelli letterari).
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