È un’app di social networking basata sul chat audio. Invece di scrivere messaggi, di postare brevi e ipnotici video, di condividere immagini o di intrecciare thread di rapidi botta e risposta, l’interazione tra gli utenti è affidata infatti alla voce. Ci si parla in diretta – prendendo la parola per alzata virtuale di mano – in gruppi tematici chiamati «stanze».
Si chiama Clubhouse, è arrivato in Italia da poche settimane ed è il social network di cui tutti stanno parlando: perlomeno in certe «bolle» professionali e d’interesse molto attente agli ecosistemi digitali, al web e alla loro evoluzione. Le ragioni dell’hype sono semplici e già viste: vi si accede unicamente per invito, è attualmente disponibile – in beta – solo per le versioni più recenti di iOS, è stato rapidamente colonizzato (questa è una particolarità tutta italiana) da quegli stessi decani del digitale che un decennio fa non avremmo esitato a definire «web star».
Il lancio, negli Stati Uniti, è avvenuto invece a marzo, con un’operazione di marketing che non ha risparmiato sul coinvolgimento di riconoscibilissime icone dello star system: Oprah Winfrey, Drake, Kevin Hart, Chris Rock. Ma è l’arrivo di Elon Musk, il 31 gennaio, ad aver messo per la prima volta alla prova la tenuta della piattaforma vocale fondata dall’imprenditore della Silicon Valley Paul Davison e dall’ex impiegato di Google Rohan Seth. In pochi minuti la stanza in cui stava parlando il fondatore di Tesla ha raggiunto il limite delle cinquemila presenze digitali e una miriade di stanze clone sono state aperte su iniziativa di alcuni utenti che hanno deciso di ritrasmettere in diretta lo speech di Musk, rendendolo disponibile all’enorme mole di persone accorse per ascoltarlo.
Effetto novità a parte, cos’è che rende Clubhouse così fascinoso? E quali potrebbero essere gli elementi capaci di farne uno strumento da sperimentare nella strategia di comunicazione di chi lavora con i libri e con i contenuti editoriali?
IL FASCINO DISCRETO DELLA VOCE
È una tendenza che osserviamo da anni (nel 2018 ci abbiamo scritto specificamente un e-book, qualche mese fa ne abbiamo pubblicato un altro che affronta ancora l’argomento): l’audio digitale è il formato editoriale che ha manifestato maggiore crescita e vivacità nell’ultimo periodo. Da un lato ci sono gli audiolibri, con la loro fruizione immersiva; dall’altro i podcast: più capaci di adeguarsi ai nostri frammentati tempi liberi e di essere companion medium delle nostre giornate. C’è poi un modello distributivo e di business che li riunisce entrambi – quello subscription – e che li colloca tra i consumi mediali a portata di smartphone che alterniamo nelle nostre diete quotidiane. Ma non finisce qui: per la voce, oramai da anni, passa una (buona) parte delle comunicazioni che ci scambiamo sulle piattaforme di instant messaging (i vocali su Whatsapp). E con la voce ci stiamo abituando ad attivare e a interagire una serie di tecnologie, per mezzo degli assistenti vocali virtuali e dei dispositivi che li incarnano nelle nostre case: gli smart speaker.
Clubhouse è una app che permette di discutere solo ed esclusivamente a voce, si parla live e – a differenza di quanto avviene per i principali social – il thread di discussione non lascia traccia, acuendo quel senso di «qui e ora» degli eventi di cui la pandemia ci ha resi orfani e riportando sul piano dell’irripetibilità quel tema della partecipazione che – nella lunghissima memoria della rete – è stato più che altro scalato a una questione di tempismo. Sono tutti elementi cari agli editori, che pur lavorando con prodotti – i libri – che si prestano molto a una fruizione individuale, differita, autonoma, dilazionata, sanno bene che la creazione dell’evento e della community attorno all’evento funzionano come richiamo di pubblico significativo e come importante leva di marketing.
In particolar modo in tempo di pandemia, Clubhouse può diventare quindi il salotto esclusivo per un reading o una chiacchierata con l’autore, la location «eccellente» per rievocare nel lettore il senso di specialità dell’incontro fisico: il tramite della voce e la sua dimensione identitaria e affettiva faranno il resto.
RIDARE TEMPO AL TEMPO
La peculiarità di Clubhouse rispetto alle altre piattaforme social non sta solo nell’adozione della voce come mezzo espressivo, contrapposto a testi, foto e video. A essere abilitata è proprio una diversa modalità di fruizione del contenuto. Siamo abituati a usare Facebook, Instagram e Twitter a intervalli piuttosto rapidi e a reiterarne molte volte l’utilizzo nel corso della giornata: uno scroll, un tap, un like, al più un commento per ciascun attimo interstiziale della nostra esistenza.
Clubhouse, al contrario, richiede tempo. E il suo lancio in un momento – quello della pandemia – caratterizzato da una vita sociale limitata o assente è stato sicuramente indovinato. Individuare una stanza tematica di proprio interesse, capire chi sta parlando e di cosa, decidere eventualmente di mettersi in ascolto: sono step che richiedono una consapevolezza e una profondità d’azione molto più significative di quelle che abitualmente riserviamo all’interattività social.
Si tratta, ancora una volta, di caratteristiche che ben collimano con il mondo di creazione e fruizione dei contenuti editoriali e con la propensione all’attenzione e alla verticalità di chi i libri li legge (e anche di chi li pubblica). Su Clubhouse ci si può potenzialmente riprendere il tempo che gli altri social sembrano sempre più comprimere, frammentare, convertire in un brusio ininterrotto ma difficilmente incisivo di parole.
LARGO AI PALINSESTI
L’interesse che il pubblico italiano ha cominciato a manifestare, da un paio d’anni a questa parte, nei confronti dei podcast, ci ha permesso di capire che c’è ancora spazio per contenuti strutturati e di qualità nelle routine di fruizione delle persone. A questo va aggiunto il fatto che i contenuti vocali stanno funzionando spesso da grimaldello, aprendo la porta d’accesso a un certo tipo o a una tecnologia di fruizione (per cui magari dal podcast si passa all’audiolibro, e dalla piattaforma gratuita a sottoscrivere un abbonamento all-you-can-listen). O ancora, incanalando un interesse debole (la storia? Il femminismo? Giusto per far riferimento ai temi di due podcast di grande successo) nel desiderio di un’esplorazione approfondita che spesso può trovare approdo nella lettura.
Certo, non va mai dimenticato che il risultato per cui tutti i produttori di media e d’intrattenimento competono – editori compresi – è prezioso e inestensibile, e coincide con l’accaparrarsi una porzione del tempo dell’utente. Per questa ragione, per un editore che dovesse cominciare a valutare Clubhouse, la prospettiva a medio termine dovrebbe essere quella di costruire un palinsesto tematico e contenutistico molto preciso e ben strutturato, convincendo il lettore con la forza di una proposta radicata nella qualità, nella differenza, nel valore. Una proposta che sappia partire e ritornare al libro, «aumentandolo» e contestualizzandolo: immergendone la lettura in un continuum di senso e di esperienza per il lettore.
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi sono responsabile del contenuto editoriale del Giornale della Libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.
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