La scena è questa,
suggerisce Brady Brickner-Wood sul New Yorker: un giovane entra in un bar affollato, ordina da bere e apre un voluminoso classico della letteratura,
magari Infinite jest di David Foster Wallace, con le sue oltre mille pagine. Potrebbe essere un semplice momento di lettura in compagnia di un drink, ma per gli osservatori più cinici (specie se cresciuti a pane e social media) quella non è solo lettura,
è un atto di lettura performativa. In altre parole, quel lettore viene visto come qualcuno che usa i libri come
accessori di scena, sfoggiando testi impegnativi per attirare l’attenzione e segnalare la propria superiorità intellettuale. Mentre tutti intorno scorrono distrattamente i feed sullo smartphone,
il lettore performativo – così vuole lo stereotipo –
esibisce la sua cultura e intelligenza a favore di pubblico, e di fotocamera.
L’espressione performative reading (lettura performativa, o esibizionista) ha guadagnato popolarità di recente grazie ai social network. Nato come meme ironico, descrive appunto l’atteggiamento di chi «mette in scena» la lettura in pubblico. Su TikTok e Instagram, ad esempio, spopolano video umoristici che caricaturano il lettore performativo tipo: perlopiù un ragazzo sui vent’anni, magari con un ampio maglione vintage, intento a leggere due libri contemporaneamente mentre scende con nonchalance le scale mobili; oppure seduto al tavolino di un caffè con una sciarpa svolazzante, concentratissimo su un volume aperto al contrario. In altre clip, lo si vede sottolineare passaggi forbiti guardandosi intorno per verificare di avere pubblico. L’intento di questi video parodici è chiaro: prendere in giro le affettazioni di chi ostenta la lettura per darsi un tono.
Anche su piattaforme testuali come X (il social un tempo noto come Twitter), il concetto di lettura performativa è diventato oggetto di ironia condivisa. Non di rado gli utenti pubblicano foto di sé stessi assorti in tomi «difficili», corredandole con didascalie autoironiche del tipo: «Sto facendo lettura performativa». In questo modo mostrano la propria passione autentica per i libri ma, al tempo stesso, dimostrano di saper ridere di sé e di essere consapevoli della componente di messa in scena implicita nei social media. È un gioco di specchi tipicamente digitale.
Da fenomeno di nicchia, la lettura performativa è così entrata nell’immaginario popolare, anche perché si inserisce in una tendenza più ampia che – dai social, ai giornali, al dibattito pubblico – etichetta come performativi molti comportamenti quotidiani, dall’attivismo performativo alla mascolinità performativa, fino alla positività performativa.
La lettura performativa, in particolare, è diventata un’ironica cartina di tornasole generazionale: in un’epoca in cui – dicono le statistiche – si leggono meno libri per diletto rispetto al passato,
o li si legge per meno tempo, e con meno profondità e continuità, suona paradossale che qualcuno passi ore su un romanzo voluminoso.
Non potrà farlo davvero per piacere, insinuano i critici: lo farà per mettersi in mostra.
Per capire le radici di questo atteggiamento, bisogna considerare il contesto della cultura digitale odierna. Viviamo in un’epoca ossessionata dall’autenticità personale, ma al tempo stesso dominata dai social media, ambienti dove ogni gesto è potenzialmente pubblico e costruito. Sui social, ciascuno cura attentamente la propria identità online, selezionando cosa mostrare di sé: è naturale quindi che ogni espressione venga vista con un certo scetticismo. Non sorprende che qualsiasi attività possa essere giudicata performativa, ovvero fatta per la platea invece che per sincerità. Come osserva ancora Brickner-Wood sul New Yorker, pubblicare un post significa inevitabilmente calcolare, deliberare, manipolare: la performance è integrata nell’esperienza, che lo si voglia o no.
Questa è la cornice entro cui si inserisce il sospetto verso il lettore in pubblico. Nella cultura contemporanea essere autentici è un imperativo morale tacito: nessuno vuole passare per il poser o il falso di turno, colui che finge competenze o passioni solo per darsi importanza. E più un certo gesto ha valenza simbolica positiva, più chi guarda è tentato di smontarlo, bollandolo come posa studiata.
E infatti l’elemento centrale della lettura performativa è il
valore simbolico del libro. Nel nostro immaginario, il libro rappresenta cultura, profondità, distinzione. Mostrarsi con un certo libro equivale a lanciare un messaggio su di sé. Non a caso, alcuni
influencer e celebrità sfoggiano libri come fossero capi firmati, usandoli per costruire un’immagine di raffinatezza intellettuale. In anni recenti, soprattutto negli Stati Uniti, si è assistito perfino alla comparsa di
consulenti chiamati book stylist: professionisti incaricati di selezionare per star e VIP i volumi più adatti da mettere in bella mostra nelle foto delle vacanze, sugli scaffali di casa o nei post dei loro book club patinati.
Nel caso della lettura performativa dal vivo, questo aspetto è evidente nella scelta dei titoli: spessissimo compaiono romanzi-feticcio come il già citato Infinite jest, o ancora Moby Dick oppure Guerra e pace. Si tratta di opere note per il volume e la difficoltà, veri e propri trofei letterari. Questa dinamica, va detto, non è del tutto nuova: già in passato esibire una biblioteca personale ricca di classici era un modo per segnalare status e cultura. Oggi però quella vanità un po’ snob si mescola con i meccanismi dei social, e se un tempo i libri si ostentavano nel salotto di casa, ora la vetrina è il mondo intero.
Tutta questa attenzione rivolta a chi legge in pubblico rivela peraltro l’enorme potere simbolico che la pratica ancora detiene. Se nessuno tenesse più in alcun conto la lettura, non ci sarebbe gusto né nel fingerla né nello sbeffeggiarla, né nell’ipotizzare che venga inscenata. Invece, la figura del lettore esibizionista colpisce nel vivo perché tocca corde sensibili: il senso di colpa di non leggere abbastanza, l’idea che la vera cultura sia altrove rispetto al flusso digitale, la nostalgia per un rapporto più profondo con i libri.
La lettura performativa è dunque un fenomeno attraversato da contraddizioni rivelatrici. Da una parte, sembra smascherare le pose intellettuali nell’era di Instagram, mettendo in guardia da un uso strumentale dei libri come ornamento sociale. Dall’altra, indica quanto sia complicato tracciare un confine tra ciò che facciamo per noi stessi e ciò che facciamo di fronte agli altri, specialmente in un’epoca in cui ogni gesto può diventare pubblico. Leggere in pubblico oggi è sia un atto intimo sia una performance agli occhi altrui: la differenza sta più nello sguardo di chi osserva che nelle intenzioni di chi legge.
Più che scegliere da che parte stare – se con i lettori «veri», con quelli «finti» da social o con i detrattori smaliziati – il fenomeno della lettura performativa andrebbe osservato nelle sue implicazioni culturali. Ci racconta di un’epoca in cui l’autenticità è ideale e ossessione, ma in cui ogni gesto può essere messo in scena e messo in dubbio. Ci mostra come i libri possano essere al tempo stesso amati per ciò che contengono e sfruttati per l’immagine che proiettano. E ci ricorda, in ultima analisi, che perfino un’attività appartata e meditativa come leggere non sfugge alla dinamica contemporanea dello specchio sociale, dove cerchiamo continuamente noi stessi riflessi nello sguardo degli altri.
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi sono responsabile del contenuto editoriale del Giornale della Libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.
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