L’ultimo culto riconosciuto in Svezia dal Kammarkollegiet, l’organo statale deputato alla registrazione delle comunità religiose, ha una sua Bibbia – POwr , broccoli and Kopimi –, un suo profeta – lo studente di filosofia Isak Gerson –, e una professione di fede molto chiara: «credo nella moltitudine dell’informazione, santa, e accessibile a tutti, credo nel copia-incolla; al libero scambio di canzoni, filmati e documenti». I suoi simboli sacri, ovviamente, sono Ctrl+c e Ctrl+v.
Questa religione ha un nome: kopimismo da «copy me», copiami appunto. I kopimisti credono nel copia incolla, nel file sharing, nell’open source e nella libera condivisione dell’informazione e della cultura. La sede di questa «Chiesa», che colleziona sempre più proseliti provenienti da tutti gli angoli del mondo, pur avendo succursali fisiche, è naturalmente il web.
Se non stupisce, forse, che sia proprio la modernissima Svezia la prima nazione al mondo ad aver ufficializzato e riconosciuto il kopimismo, stupiscono forse le reazioni allarmistiche di chi non ha colto l’ironia e l’intento provocatorio che stanno alle spalle di questa idea. Il diciannovenne studente di filosofia Isak Gerson, nel formulare i principi alla base della sua religione, non ha mai fatto alcun accenno a una metafisica trascendente: l’unico termine che allude al sacro è riferito al diritto al sapere che deve essere accessibile, gratuito e per tutti.
Il riconoscimento del kopimismo come culto ufficiale potrebbe avere un peso giuridico non indifferente su quei processi che, in Svezia, sono volti ad accertare eventuali infrazioni delle normative sul file sharing. Infatti, in ambito di diritto civile, chi infrange delle leggi per motivi religiosi ha solitamente diritto a qualche attenuante. Se l’intento provocatorio a questo punto risulta evidente, certamente l’argomento ha tutte le premesse per rimanere scottante, soprattutto se si tiene conto che ogni liturgia kopimista si chiude con l’esortazione «copy and seed» ovvero: copiate e disseminate.