Nel 1959 a Cuba il 24% della popolazione era analfabeta.
Un cubano su quattro, circa un milione di persone. Nel 1961, a due anni dalla rivoluzione castrista, venne lanciata una campagna per combattere questa piaga sociale, che riuscì in un anno ad
alfabetizzare oltre 700 mila persone. Il metodo adottato fu di enorme impatto: 270 mila «alfabetizzatori» furono selezionati tra insegnanti, volontari, ma anche tra studenti e bambini. Si arrivò finanche a interrompere la frequenza scolastica per convogliare sul progetto le forze di chiunque sapesse leggere e scrivere e fosse capace di insegnarlo. Gli alfabetizzatori furono distribuiti nelle
aree rurali del Paese, dove non solo insegnavano, ma aiutavano i contadini nel lavoro dei campi e le massaie in casa, per permettergli di dedicarsi all’apprendimento senza compromettere la produttività delle loro attività. Al termine del periodo di insegnamento, che era di lunghezza variabile, ciascun allievo scriveva di suo pungo una lettera a Fidel Castro, sancendo anche simbolicamente la sua uscita dall’analfabetismo.
L’indice si ridusse al 3,9% e l’isola fu dichiarata primo territorio dell’America Latina libero dall’analfabetismo, come avrebbe riconosciuto anche l’Unesco un anno più tardi.
Oggi, secondo l’Asociación de Pedagogos de Cuba, la percentuale della popolazione incapace di leggere e scrivere è
inferiore allo 0,2%, a fronte di una
media dell’11,7% per i Paesi ispanofoni del continente americano. «La campagna di alfabetizzazione permise di eradicare questo male da Cuba, facilitando l’accesso dei cittadini ai diversi livelli d’istruzione previsti dalla scuola pubblica e guidandoli nella ricerca di un futuro migliore»,
racconta a «El País» Luisa Campos, direttrice del
Museo nazionale della campagna di alfabetizzazione, unico al mondo nel suo genere.
Quasi quarant'anni più tardi,
nel 2001, lo Stato cubano cominciò a lavorare a un
progetto di cooperazione internazionale per la lotta all’analfabetismo, concentrato soprattutto sull’America Latina e concepito per adattarsi alle specificità dei Paesi in cui, di volta in volta, sarebbe stato portato. L’obiettivo principale del programma è rendere gli studenti parte integrante del tessuto sociale, politico ed economico della comunità in cui vivono. Il suo strumento base è
un abecedario di non più di cinque pagine, che utilizza l’associazione tra numeri e lettere per insegnare a leggere e a scrivere a persone con più di 15 anni di età, mai veramente incluse in percorsi di scolarizzazione. A realizzare il progetto è stata essenzialmente
la pedagogista Leonela Relys, che aveva già preso parte alla storica campagna del 1961 e allo sviluppo di un modulo di alfabetizzazione via radio per Haiti.
Il programma, chiamato Yo sí puedo, utilizza supporti audiovisivi per facilitare il processo di apprendimento di lettura e scrittura. A integrare l’abecedario ci sono un manuale per l’insegnate e 17 video, per un totale di 65 lezioni. Fondamentale la figura del mediatore o facilitatore, che si assicura che i contenuti delle videolezioni vengano effettivamente recepiti e capitalizzati dagli studenti. Dalla campagna del ’61 Yo sí puedo riprende anche l’elasticità nelle tempistiche: il corso può durare da 7 a 12 settimane.
Finora quasi 10 milioni di persone, distribuite in circa 30 Stati americani, hanno imparato a leggere e a scrivere grazie al programma, che nel corso degli anni 2000 è stato adottato anche in altre parti del mondo, come l’Angola o il Mozambico. Attualmente si stima che ad essere istruiti con questo sistema siano più di 800 mila allievi, almeno secondo il Ministro dell'istruzione cubana Ena Elsa Velázquez. Paradigmatico è il caso del Venezuela, dichiarato libero dall’analfabetismo nel 2005 grazie alla capacità del programma nell’insegnare a leggere e a scrivere a un milione di persone in sei mesi, declinando le sue lezioni e i suoi supporti sulle esigenze socio-culturali e linguistiche delle 34 etnie che popolano il Paese. E «contestualizzare» non significa solo tradurre. Ogni volta che il programma viene portato in un nuovo Paese c’è bisogno di calarlo a pieno nel contesto nel quale andrà a operare, a partire dalle peculiarità linguistiche fino ad arrivare a quelle sociali, comportamentali, culturali.
Molto recentemente Yo sí puedo è arrivato anche in Paesi come il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia, dove viene utilizzato come metodo di apprendimento per le comunità aborigene. E persino in Spagna, dove l’Ayuntamiento di Siviglia ha adottato il programma dal 2007 per combattere l’analfabetismo nelle periferie e nelle aree culturalmente depresse della regione. Dal 2002 il programma è stato declinato in diverse lingue, dall’inglese, al francese, al portoghese, ma anche in idiomi indigeni come il quechua, l’aymara e lo suahili. Nel 2006 è stato anche insignito del premio per l’alfabetizzazione conferito dall’Unesco, che ricorda che al mondo ci sono ancora quasi 800 milioni di analfabeti.
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi coordino il Giornale della libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.
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