In questo viaggio a ritroso nel tempo
che abbiamo intrapreso la scorsa settimana per raccontare attraverso curiosità, notizie, avvenimenti
la storia dei primi 150 anni dell’Associazione Italiana Editori, ci siamo imbattuti in una delle prime statistiche sulla produzione editoriale del Regno d’Italia:
anno 1887. Notizia non occasionale, perché non era difficile incontrare – già dai primi anni di pubblicazione del «Giornale della libreria», che allora si chiamava «Giornale della libreria, della tipografia e delle arti e industrie affini» (nome che terrà fino al 1921) –
informazioni sulla produzione italiana di libri, ma anche di carta, macchine tipografiche o dati sulla produzione editoriale di Paesi stranieri: Germania e Francia in primo luogo.
«Diamo qui di fronte la tabella statistica, pubblicata dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – si legge tra le pagine del quinto numero del “Giornale della libreria” (
siamo nel gennaio del 1888, la rivista era all’epoca settimanale) – nella quale sono distribuite secondo le rispettive materie e ripartite nelle regioni nelle quali furono stampate, le pubblicazioni uscite nel Regno durante il 1887, ponendole a raffronto con il precedente anno 1886». E i numeri, come si vede, sono più che interessanti:
nel 1887 erano stati pubblicati 11.161 libri. Un numero importante, anche considerando che la definizione di «libro» di fatto abbracciava tanto gli opuscoli di poche decine di pagine quanto gli «Statuti e bilanci»: 1.441 opere. Oppure i 704 atti del Senato e della Camera dei Deputati.

Come si vede, la produzione presenta caratteristiche assai diverse da quelle odierne. I «Romanzi e novelle» rappresentano il 3% della produzione complessiva, a cui aggiungere la categoria «Miscellanea e letteratura popolare» con un altro 3,6%. Quella che oggi chiameremmo «fiction», insomma, rappresentava, con 734 opere, meno del 7% della produzione complessiva (ma molto veniva letto direttamente in francese). Oggi è il 29,7%.
Sono invece i testi pratici – agricoltura, medicina, giurisprudenza, allevamento, manuali scolastici e via dicendo, che servivano a un Paese che stava nascendo e che aveva bisogno si strumenti formativi ed educativi – a farla da padrone.
11.161 opere restano un valore comunque elevato, soprattutto se rapportato con il livello di alfabetizzazione dell’epoca. Un indicatore comunemente usato per «pesare» le editorie dei vari Paesi è il numero di titoli pubblicati per mille abitanti. Oggi: quando la popolazione dei vari Paesi è interamente alfabetizzata. Così non era nell’Italia di fine XIX secolo.
Così se prendiamo la rilevazione demografica più vicina, che risale al 1881, riporta un tasso di analfabetismo del 67,3%. Se da un lato la popolazione italiana era di 28.951.546, le persone in grado di leggere e scrivere erano soltanto 9.467.156. Quelle 11 mila opere pubblicate (al netto di atti pubblici e dei bilanci) significano 0,86 titoli per mille abitanti alfabetizzati.
Come si vede, numeri non lontanissimi da quelli attuali. Ma soprattutto numeri che descrivolo l’offerta di un’editoria attenta allo sviluppo economico e industriale del Paese, con una significativa produzione di libri professionali ed educativi. (Ha collaborato Antonio Lolli)
Mi sono sempre occupato di questo mondo. Di editori piccoli e grandi, di libri, di librerie, e di lettori. Spesso anche di quello che stava ai loro confini e a volte anche molto oltre. Di relazioni tra imprese come tra clienti: di chi dava valore a cosa. Di come i valori cambiavano in questi scambi. Perché e come si compra. Perché si entra proprio in quel negozio e si compra proprio quel libro. Del modo e dei luoghi del leggere. Se quello di oggi è ancora «leggere». Di come le liturgie cambiano rimanendo uguali, di come rimanendo uguali sono cambiate. Ormai ho raggiunto l'età per voltarmi indietro e vedere cosa è mutato. Cosa fare da grande non l'ho ancora perfettamente deciso. Diciamo che ho qualche idea. Viaggiare, anche se adesso è un po' complicato. Intanto continuo a dirigere l'Ufficio studi dell'Associazione editori pensando che il Giornale della libreria ne sia parte, perché credo sempre meno nei numeri e più alle storie che si possono raccontare dalle pagine di un periodico e nell'antropologia dei comportamenti che si possono osservare.
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