
Si sa, il luogo comune vuole che sia la piccola editoria a scoprire gli autori, e la grande editoria a goderne i frutti. Ma sarà poi vero? Davvero non c’è possibilità per gli editori medio-piccoli di tenere con sé i talenti scoperti e fatti crescere? In questi ultimi anni ci sono stati molti esempi di rapporti tra scrittore e casa editrice che si sono rivelati solidi, resistenti al passare del tempo e alle lusinghe dei grandi gruppi: durante l’incontro
Come avrei potuto fare, per non farmi lasciare ne hanno parlato due professioniste dell'editoria che possono senz’altro rappresentare a testa alta la categoria,
Daniela Di Sora (Voland) e
Claudia Tarolo (Marcos y Marcos).
L’incontro prende avvio con l’
indagine fatta da Giovanni Peresson (Ufficio Studi AIE)
sugli autori che occupano le prime 60 posizioni della classifica di narrativa italiana dell’anno appena trascorso. Questa ricerca ha sottolineato come il 68,9% degli autori in classifica è stato scoperto da una piccola casa editrice, che ha deciso di dargli fiducia; eppure il 51% è passato a una grande casa editrice, e solo il 23% è rimasto fedele alla piccola realtà che li ha fatti esordire. Come hanno fatto, dunque, Daniela Di Sora e Claudia Tarolo a tenersi stretti i loro autori di bestseller?
Daniela Di Sora comincia parlando dell’esempio a lei legato più esemplificativo di questa situazione:
Amélie Nothomb. Afferma che spesso le viene chiesto, anche senza particolare grazia, perché la Nothomb rimane da loro; e racconta quindi di come, dopo soli due anni dalla fondazione di Voland nel ’94, incontrò da lettrice Amélie, col suo primo titolo,
Igiene dell’assassino; un incontro folgorante, per cui decise che voleva pubblicarla in Italia. Tra l’innamoramento personale e il momento in cui ha preso la decisione di pubblicare questo primo titolo l’autrice («grafomane») aveva scritto altri tre libri. Così, dopo aver contattato la casa editrice francese che gestiva anche i suoi diritti, le è stato detto che erano molto contenti dell’idea, ma che avrebbe dovuto comprare i diritti per tutti i quattro titoli – per un totale di dieci milioni di lire – o non se ne sarebbe fatto nulla. All’epoca per la casa editrice appena nata era una cifra importante. Dopo aver riflettuto un po’ («ma per fortuna non tanto») li ha comprati. Questo ha dato inizio al loro rapporto: dimostrando di crederci
la Nothomb ha capito che si voleva fare un discorso serio, e il risultato è che chiunque le faccia un’offerta ottiene un rifiuto. Questo sia perché è fedele lei, ma anche perché la casa editrice sta continuando a proporre un ottimo lavoro redazionale, e a portare avanti una politica d’autore per cui si pubblicano tutte le sue opere, così che il pubblico possa conoscerla nella sua totalità.
Claudia Tarolo ha cominciato parlando dell’importanza di dedicarsi all’attività di lettura dei manoscritti che arrivano in casa editrice, perché tra questi può nascondersi una perla; e in generale ha detto che scoprire un autore italiano dà una soddisfazione diversa e maggiore, perché si è proprio i primi a riconoscerne il talento. Racconta poi di uno degli esempi più noti legati alla sua casa editrice, ovvero
Cristiano Cavina, che le permette anche di mettere subito in chiaro che per non farsi lasciare
è importante definire sin da subito e con chiarezza anche la parte economica di un rapporto. Non bisogna mai nascondersi dietro a una scusa come «sei esordiente e già che ti si pubblichi è un onore», ma bisogna essere corretti e pagare racconti e anticipi fin da subito, con una cifra che sia corretta e che rispecchi le possibilità di mercato del titolo. Il rapporto con Cavina, dunque, comincia con il pagamento di un racconto inserito in un’antologia: lui probabilmente l’avrebbe fatto anche gratis, ma non sarebbe stato un atteggiamento lungimirante da parte dell’editore. È così che è nato il rapporto con l’autore, che poi in dodici anni si è ovviamente approfondito ed è diventato più personale, tanto che la Tarolo racconta di come la mamma di Cristiano, quando è andata a Casola Valsenio, le abbia preparato i tortelli di castagna; e sfrutta l’occasione per sottolineare che anche questo è un punto importante, il fatto che lei vada effettivamente da Cristiano nel paese in cui vive, e che con tutti gli autori è disponibile a spostarsi e a entrare nel loro mondo per riuscire a tirare fuori il meglio dalla loro scrittura. Tornando a parlare di Cristiano, afferma che il momento di «pericolo» è arrivato quando, con la pubblicazione di
Nel paese di Tolintesac, Cavina ha cominciato a superare la soglia delle 10 mila copie vendute: una grande casa editrice si è fatta avanti offrendo, «in una scena da film», 100 mila euro per il libro successivo, che lui ancora non aveva scritto. E a questa offerta lui rispose ringraziando e dicendo che
aveva già un editore. Loro ovviamente ne sono stati felicissimi, e pur non potendo offrire la stessa cifra (anche perché prima è fondamentale avere concretamente il nuovo libro, per poter fare un onesto giudizio di valore), hanno deciso alla fine per 50 mila euro di anticipo, perché il nuovo titolo li valeva.
Riprende la parola Daniela Di Sora, che concorda con Claudia Tarolo sull’
importanza del rapporto personale. Lei, ad esempio, va sempre a prendere all’aeroporto la Nothomb, anche per piacere personale, e anche per questo l’Italia è l’unico paese – oltre alla Francia e al Belgio – in cui lei viene ogni anno; allo stesso modo, per Dulce Maria Cardoso, altra autrice in catalogo, ha fatto il giro dei ristoranti vegetariani di Roma, dato che l’autrice è, appunto, vegana. Non ha paura che le autrici le vengano «rubate» perché sa che sono anche queste attenzioni a rendere uno scrittore felice e soddisfatto, e non crede proprio che i grandi editori sarebbero disposti ad agire in questo modo. Conclude dicendo che negli ultimi tempi ha sentito autori italiani, ora pubblicati dai grandi editori, che vorrebbero tornare indietro perché l’attenzione che i piccoli davano a tutto ciò che era il «resto», l’attenzione umana, non c’è più.
A questo punto Gianni Peresson sottolinea però che tutti questi aspetti sono molto legati alle personalità dei due editori; ma dato che queste sono evidentemente competenze importanti, bisognerebbe forse capire come diventare «allenatori» e se
sia effettivamente possibile trasferire queste abilità. È dunque possibile immaginare di formalizzare e trasmettere questo sapere?
Risponde per prima Claudia Tarolo, che ritiene sia fattibile, perché oltre agli aspetti personali ci sono anche quelli assolutamente professionali; e che lei e Marco Zapparoli stanno cercando di passare queste competenze ai loro collaboratori. Con gli autori c’è bisogno di
assoluta trasparenza e correttezza, oltre alla comprensione necessaria per lasciargli la possibilità di sbagliare o di dedicarsi anche a titoli che magari non renderanno (uno dei motivi per cui Paolo Nori è passato da loro, e per cui Cristiano Cavina è rimasto).
Anche Daniela Di Sora è convinta che la professionalità ci deve essere e non è tollerabile che non ci sia. Parlando in particolare degli autori italiani (discorso molto diverso da quello delle traduzioni, dove il libro arriva già formato), afferma che è importante anche un lavoro di fino sul testo, pur mantenendo l’umiltà necessaria per un confronto. Il fine ultimo rimane comunque, sempre, portare ai lettori il testo al meglio delle sue possibilità. Tutti questi concetti, però, s’insegnano «a monte» ai collaboratori della casa editrice, scegliendo il team perfetto con cui lavorare sin dai colloqui di lavoro. I fattori necessari sono
professionalità, disponibilità, apertura, curiosità – quest’ultima anche in generale nella vita.
Chiude Claudia Tarolo aggiungendo che è necessario arrivare a un punto in cui c’è fiducia, e questa la si conquista dimostrando di aver compreso cosa sta facendo l’autore, quali sono i punti che non si possono toccare. Una capacità che si può insegnare, e che lei sta provando a passare.
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