
Per uno scrittore da bestseller con anticipi dai 5 zeri in su, ce ne sono almeno un centinaio tra aspiranti autori, autori autopubblicati o ibridi che guadagnano meno di 1.000 dollari all’anno.
Questo è l’inedito quadro che emerge dallaÂ
ricerca presentata la settimana scorsa alla Digital Book World Conference che ha fatto il punto sul dibattutissimo tema della remunerazione degli autori nell'era dell'editoria digitale. Se infatti
è notizia di pochi giorni fa che Sylvia Day, la nota autrice di libri erotici pubblicati in Italia da Mondadori e già felice autrice selfpub di numerose hit a sfondo piccante, ha appena incassato un assegno a 8 cifre per l’anticipo sui prossimi due libri che saranno pubblicati dalla St Martin’s Press, la ricerca rivela che
ben il 54% degli autori tradizionali e addirittura l’80% di quelli self published non ricavano dal lavoro delle lettere più di 1.000 dollari all’anno.
Il campione è significativo perché hanno partecipato alla ricerca ben 9.210 autori divisi in 4 categorie: aspiranti (sono il 65%), self published (il 18%), tradizionali (l’8%) e ibridi (che pubblicano o hanno cioè pubblicato sia in modo tradizionale che tramite self publishing, si definiscono in questo modo il 6% dei partecipanti).
Andando nel dettaglio, la ricerca mostra che più del 77% degli
autori self published non guadagna praticamente nulla o, per dirla in maniera più soft, non ha nell’attività di scrittura le proprie entrate principali. Per questa categoria di autori infatti è solo lo 0,7% a guadagnare più di 100 mila dollari all’anno e i casi editoriali, insomma, si contano sulle dita di una mano.
Al contrario la situazione che sembra più vantaggiosa è quella degli
autori ibridi tra i quali è solo il 43,6% a dichiarare compensi inferiori ai 1.000 dollari l’anno mentre ben il 5,7% sostiene di avere generato nell’ultimo anno compensi superiori ai 100 mila dollari.
Gli
autori tradizionali sono paradossalmente quelli che se la passano peggio visto che più della metà degli intervistati (parliamo del 53,9%) guadagna meno di 90 dollari al mese dalla propria produzione letteraria, e solo l’1,3% sfonda il tetto dei 100 mila dollari l’anno.
Certo, tra le ragioni che alimentano il sacro fuoco dei 9mila intervistati il ricavo economico è al primo posto per meno del 20% degli autori, ma «pubblicare un libro che qualcuno comprerà » (con tutte le sfumature che una definizione del genere porta con sé) è una motivazione di primaria importanza per più della metà degli intervistati. Scrivere un libro, al di là del desiderio di condividere storie ed emozionare una possibile platea di lettori, è anche, potremmo azzardare, un modo per cercare negli altri l’approvazione per il proprio modo interiore e per il modo in cui viene raccontato.
In un mondo in cui tutti possono diventare editori di se stessi con qualche click e una buona dose di tempo libero,
i ricavi diventano per l'autore
 un modo tangibile per valutare la bontà della propria opera, un
surrogato del prestigio dell’essere selezionati, tra tanti, da una casa editrice.
Eppure,
secondo Hugh Howey che con il suo romanzo autopubblicato
Wool (in Italia è edito da Fabbri) ha venduto centinaia di migliaia di copie prima di entrare nella scuderia di un editore tradizionale, la ricerca getterebbe una luce troppo cupa sul mondo selfpub. Per Howey «
il self publishing è destinato a giocare sempre più un ruolo strategico nel processo editoriale, consentendo agli scrittori di "affinare " le loro competenze . Il fatto è semplice: essere pagati per ciò che si scrive non è facile, ma self-publishing lo sta rendendo più semplice . Quanto più semplice? Non abbiamo dati sufficienti per dirlo, ma facendo una stima prudente penso di poter dire che le persone che possono pagarsi le bollette con i loro libri autopubblicati su Amazon e su altri siti affini sono oggi almeno 5-10 volte di più di qualche anno fa».

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