Per adesso dice che «sta ancora prendendo le misure» ma qualche idea di come sarà il Laboratorio Formentini di cui è il nuovo direttore, Giacomo Papi – scrittore, giornalista e autore televisivo – già ce l’ha: l’istituzione culturale milanese per la valorizzazione del lavoro editoriale sta pensando a incontri collegati tra loro, forse anche a corsi, non solo più incontri singoli, e lavorerà sulla frontiera dell’innovazione. D’altronde, aggiunge Papi, «la mia nomina è contestuale al mio futuro ingresso nel cda della Fondazione Mondadori con la delega all’innovazione: il Laboratorio, di cui la Fondazione ha la gestione, è quindi la parte di punta di un lavoro più grande».
Partiamo da qui allora. Cosa vuol dire innovazione in un settore come l’editoria che si basa su un prodotto, il libro, uguale a sé stesso da centinaia di anni e che, come ha detto Umberto Eco, è una tecnologia eterna?
Le gabbie dei libri che leggiamo adesso sono pressoché uguali a quelle di Manuzio del 1500, certo. Anche il carattere di quasi tutti i libri italiani, il Garamond, risale al Seicento. Al contempo negli ultimi anni l’editoria sta attraversando una rivoluzione digitale che non è solo una questione tecnica che ha influito sul lato dei costi di stampa e distribuzione, ma anche una rivoluzione sociale che allarga, almeno in potenza, i confini di ciò che possiamo intendere per editoria. Il fatto che oggi chiunque possa rendersi visibile al mondo scrivendo e che la scrittura sia una delle attività attraverso cui si costruisce la propria identità pubblica, da un lato rende la definizione di editoria meno precisa perché in qualche misura tutto è diventato editoria. Ognuno in qualche modo può farsi editore di sé stesso. Ma, d’altro canto, obbliga l’editoria tradizionale a ripensarsi e a ridefinirsi perché non ha più il monopolio nel potere di rendere pubblica la scrittura.
Quale è allora il compito dell’editoria?
Sono convinto che l’età della scrittura stia iniziando solo adesso: mai si è scritto e letto come oggi. La qualità media, ovviamente, si è molto abbassata come capita sempre quando un’attività diventa di massa. Se tutti cantassero per strada, la qualità media delle prestazioni canore crollerebbe. Ma in un'età in cui tutti scrivono e leggono, la qualità del contenuto fa la differenza. L’editoria ha quindi il compito di definire sempre più le sue scelte sulla base della lettura e della scrittura, anche al di là della pagina scritta. L’innovazione editoriale passa da questioni tecniche come il free publishing, i libri elettronici e gli audiolibri, ma non si confina a quelle perché il fatto che un numero sempre maggiore di persone si esprima pubblicamente attraverso la scrittura è una questione politica e sociale enorme che va affrontata.
Lei parla di qualità, ma è vero anche il contrario: gli editori oggi scelgono gli autori anche sulla base di una popolarità nata altrove, ad esempio sui social network, o sulle piattaforme di free publishing.
Questo ne ridimensiona il ruolo e il potere e può essere un grande problema, ma d’altra parte impone all’editoria di fare il suo mestiere con ancora maggior attenzione di prima, trasformando la popolarità conquistata dagli autori in altri campi in testi di qualità, che dicano qualcosa. Fare l’editore in un certo senso significa fare cornici: rendere importante il contenuto – che poi sono le storie e i pensieri – attraverso il contenitore, la grafica, il titolo, il publishing, il marketing. Le faccio un esempio molto concreto: Sellerio oggi è una casa editrice che è in grado di dare valore ai gialli che pubblica, perché offre ai testi una cornice che è un valore aggiunto.
Torniamo al laboratorio Formentini. La spaventa diventare direttore di una istituzione che sulla pratica dell’incontro ha fondato la sua ragione d’essere in un momento in cui l’incontro in presenza non è possibile?
Intanto mi lasci dire che il Laboratorio poggia su basi solide, basi che sono state costruite dalla Fondazione Mondadori, che ha in gestione dal Comune di Milano questa realtà, in particolare grazie al lavoro di Luisa Finocchi e oggi di Marta Inversini. Non sono preoccupato, no: stiamo sperimentando tutti nuove modalità di interazione e di incontro in remoto che non scompariranno dopo la fine dell’epidemia. Vedersi di persona, incontrarsi negli stessi luoghi fisici, rimarrà centrale, ma quanto abbiamo vissuto ha allargato le nostre possibilità, non le ha ristrette.
Ha detto che si deve ancora chiarire le idee, ma qualche anticipazione sui programmi futuri del Laboratorio ce la può dare?
Finora il Laboratorio si è concentrato soprattutto su eventi singoli: faremo cose con più respiro, stiamo pensando anche alla possibilità di fare qualche corso. E poi vogliamo fare presentazioni di libri in modo diverso, come momenti che raccontino al pubblico non solo che cosa c’è in un libro, ma anche come un libro è stato fatto e chi ci ha lavorato oltre all’autore. Per esempio mi piacerebbe ospitare scrittori ed editor perché raccontino come quel testo è stato lavorato, gli interventi, i tagli, le modifiche che ha richiesto. E vorrei fare lo stesso per le copertine o i titoli. L’idea è mostrare i libri nudi attraverso delle presentazioni-lezioni per mostrare che quella del libro è una filiera complessa che coinvolge molto competenze, non solo quella dell’autore. I libri sono sempre il risultato di un lavoro collettivo di cui l’autore è il protagonista. Mi pare che ci sia fermati a un’idea romantica della scrittura e che questa sia una delle grandi questioni taciute dell’editoria.
A proposito di formazione: Fondazione Mondadori partecipa al master in editoria dell’Università Statale di Milano a cui collabora l’Associazione Italiana Editori.
Faremo sinergie, ma anche qualcosa di più. Il master ha professionisti molto qualificati e gli studenti spesso trovano un buon sbocco professionale, ma insieme al Laboratorio Formentini penso si possano ipotizzare collaborazioni e nuove declinazioni, aprendosi ad esempio ai nuovi media. Editoria non solo come mestiere di fare i libri, ma come mediazione rispetto alla lettura e alla scrittura. Mi lasci dire solo due parole su questo, sul ruolo della lettura. Oggi la modalità prevalente della lettura avviene sui telefonini. È sicuramente una lettura veloce, spesso distratta, con forti elementi di oralità, ma non si è mai letto tanto come oggi. Contro il pessimismo prevalente, è un fatto che negli ultimi anni a tenere viva l’editoria in tutto il mondo – lo dicono i dati di AIE – sono i più giovani, i lettori sotto i 15 anni. C’è una vitalità fortissima in questo.
Come si declina questo cambiamento dal lato delle nuove professionalità dell’editoria?
Viviamo ancora nell’idea di una divisione netta tra scrittori e lettori, ma ci sono segnali che ci dicono che questi confini si confondono, si sovrappongono. Mi vengono in mente moltissime professionalità e strumenti che potrebbero trovare spazio nel Laboratorio: dall’audiolibro al podcast, perfino i post sui social media. I migliori dialoghi d’amore oggi, forse, li stiamo scrivendo su WhatsApp. La lettura si è sfrangiata in mille frammenti che penetrano nella vita quotidiana e che rendono il mestiere dell’editoria, non più un’attività a parte, specializzata, ma qualcosa che ha a che fare con il modo in cui raccontiamo e pensiamo, quindi abitiamo, il mondo. Una riflessione su questa trasformazione mi sembra necessaria.