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Editori

Breve storia ragionata del book cover design contemporaneo

di Denis Pitter notizia del 14 gennaio 2021

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul numero di dicembre 2020 del Giornale della libreria. Fino al 31 gennaio hai la possibilità di sottoscrivere l'abbonamento per il 2021 con uno sconto del 20%.

La copertina di un libro, scrive Jhumpa Lahiri nel suo breve saggio Il vestito dei libri (Guanda 2017), «è come un bel cappotto» che avvolge le parole «mentre camminano per il mondo, mentre vanno a un appuntamento con i lettori». Ma, come fa notare la stessa autrice poco più avanti, una copertina sbagliata, al pari di un vestito, toglie valore al libro stesso, illude, svilisce o magnifica eccessivamente un contenuto che, da solo, sarebbe stato di dubbia qualità. Dal punto di vista di un autore, primo genitore di un testo, questa dicotomia giusto/sbagliato è certamente più sentita: Agatha Christie, in una lettera al suo agente, si lamenta della scelta di copertina del suo romanzo Parola alla difesa, descrivendola come «banale e terribile» e chiedendo che venisse stracciata. Anche dalla prospettiva del lettore una copertina può piacere o non piacere; può essere giudicata respingente rispetto al contenuto o fin troppo enfatica. Oppure non essere considerata affatto da chi, del libro, guarda solo al contenuto.

Tuttavia, sposare in toto l’analogia fra copertina e vestito (Lahiri gioca anche con l’inglese book jacket, che in italiano corrisponde alla più sobria «sovraccoperta») toglierebbe importanza ad altri due concetti chiave interconnessi legati al mondo delle immagini, ossia rappresentazione e traduzione.

Come rappresentazione, un’immagine è una presenza «al posto di qualcosa di assente». In quest’ottica, l’immagine di copertina diventa un’entità che rappresenta un contenuto ancora da disvelare. Allo stesso modo, quello delle immagini è anche un linguaggio e, in quanto tale, soggetto a mutazioni e contesti; un’immagine può essere considerata una traduzione di qualcos’altro in una lingua differente e, quindi, la copertina di un libro ne tradurrebbe il contenuto. O, almeno, dovrebbe.



Un libro obliquo di Safarà [
fonte]


Se ormai il binomio tradurre/tradire si è consolidato nel panorama della traduzione letteraria, lo stesso è applicabile anche nella traduzione visiva di un’opera. Il cambio di medium espressivo porta immancabilmente con sé una cospicua dose di tradimento, tanto più che il progettista grafico di una copertina e l’autore del testo coincidono di rado. È come se una persona fosse costretta a indossare abiti scelti da qualcun altro, in alcuni casi possono coincidere col proprio gusto, in altri no. 

Per riuscire a orientarsi nel labirinto della storia della copertina è d’aiuto il concetto di collana editoriale, che storicamente viene fatto risalire alla seconda metà del ’500 e che, nei secoli successivi, ha consentito di creare una serialità e un ordine anche dal punto di vista grafico. Come le singole perle di una collana, anche i volumi che compongono una collana editoriale sono elementi unici ma accomunati da caratteristiche fisiche e visive e collegati da un filo conduttore.

In epoca più recente, la scuola francese e quella italiana hanno puntato molto sull’identità visiva di collana, riducendo al minimo l’appariscenza (e la personalità) del singolo libro, a favore appunto della serialità e della riconoscibilità del marchio. A partire dagli inizi del ’900, casi esemplari sono state e sono tutt’ora le francesi Gallimard e Albin Michel, dove la componente visiva è limitata al lettering e alla caratteristica cornice grafica. In Italia si possono citare, fra i tanti esempi, Adelphi e Sellerio, che hanno fatto dell’identità di collana una cifra distintiva.

Ecco che l’estetica del singolo libro si amplia in un’estetica «di scaffale», dove serialità e similitudine diventano valori di serietà, pulizia e armonia cromatica. Come direbbe Lahiri, la collana editoriale è una divisa che valorizza la collettività e non il singolo.

La storia della grafica e del design industriale ci svela anche una ciclicità nell’evoluzione della copertina sia da un punto di vista temporale sia geografico. Ciclicità fatta di nuove idee e di sperimentazione, di revival e di tradizione. Il mercato editoriale anglosassone, soprattutto statunitense, ha una sua genetica intrinseca che differisce molto, per esempio, dalla tradizione italiana o da quella francese. Tradizioni che la contemporaneità e la globalizzazione hanno parzialmente ribaltato, dando vita a sempre maggiori contaminazioni.

Oggi, l'accessibilità in tempo reale alle informazioni genera input visivi costanti e massificati, provenienti da ogni parte del mondo. Le copertine dei libri, in questo senso, non fanno eccezione. L’accesso alle copertine straniere è immediato e chiunque può scoprire e giudicare la copertina dell’edizione originale con pochi click. Allo stesso modo, anche il girovagare tra gli scaffali dei libri in lingua straniera può essere un’esperienza tanto utile quanto disorientante per molti book designer italiani. La quantità di stimoli visivi e linguistici è spesso frastornante per chi è abituato (e allenato) a un certo maggior rigore delle copertine italiane.

L’apparente entropia visiva della produzione editoriale straniera, in special modo di quella dell’area anglosassone, lascia tuttavia spazio a una maggiore libertà espressiva del singolo titolo. Senza i vincoli grafici della collana editoriale, un libro si presenta per com’è, un unicum, conferendo un peso specifico decisamente maggiore alla comunicatività di una singola copertina. Non è difficile, quindi, imputare alla scelta grafica una parte anche considerevole del successo di vendite del libro che racchiude. Motivo per cui una scelta grafica etichettata come «infelice» nella prima edizione, spesso si tramuta in un drastico cambio di direzione nelle successive o nel passaggio all’edizione economica.



Alcune copertine di Jon Gray [fonte]

Contemporaneamente, le tendenze di mercato spingono a una massificazione anche del prodotto-libro, facendo sempre più leva sul sensazionalismo e l’immediatezza. Le copertine devono attirare lo sguardo. E la concorrenza non si limita alle librerie fisiche: l’aumento dell’e-commerce ha fatto inserire una nuova variabile nel mercato editoriale, portando al bisogno di fare emergere i propri titoli anche sugli schermi. Come fa notare il designer Jon Gray, creatore di premiate copertine per autori come David Foster Wallace, Zadie Smith, Salman Rushdie, «il marketing e i media online hanno portato a una tendenza verso copertine sempre più brillanti e sature anche sulla stampa, all’uso di colori fluorescenti e inchiostri speciali […]. Alla stampa viene richiesto di combaciare con la luminosità di uno schermo».

Il libro italiano negli ultimi decenni sta vivendo questo mutamento estetico e il bisogno di farsi notare e di emergere, che contraddistingue gran parte del (personal?) branding contemporaneo, sta spingendo sempre di più le copertine verso una prospettiva one shot (ossia quelle copertine svincolate dalla serialità della collana e progettate appositamente per il singolo titolo). Il fenomeno non deve essere guardato con diffidenza e ostilità, ma come un processo naturale legato al contemporaneo.

Dalla prospettiva di un visual designer può voler dire un maggior rischio, ma anche più libertà creativa. Le realtà editoriali emergenti o neonate che non hanno (ancora) una presenza sul mercato tale da consentire loro di svincolarsi dall’egida della riconoscibilità di collana, ma che, d’altro canto, puntano sulla contemporaneità, possono avere a disposizione un’altra via che consenta loro di coniugare coerenza e flessibilità.




Il redesign di Giulio Perrone Editore [fonte]


Un’ultima considerazione va quindi fatta sul concetto di format che, a differenza della rigidità della collana, permette di mantenere la costanza di alcuni elementi grafici, ma regolandone l’intensità percettiva in base all’esigenza del singolo titolo. È un compromesso che sta portando, negli ultimi anni, all’emergere di eccellenze grafiche che coniugano creatività e riconoscibilità, mantenendo la forza del brand e la libertà espressiva. Fra i tanti esempi possibili, citiamo il redesign di Giulio Perrone Editore (firmato da Maurizio Ceccato) che coniuga tradizione e modernità, così come per Sur (Riccardo Falcinelli) e i libri obliqui di Safarà (Giuseppe D’Orsi).

Svincolarsi dalla gabbia forzata della collana, dove spesso la progettazione di una copertina è limitata alla sola ricerca iconografica, potrebbe quindi portare nuova linfa vitale alla creatività del nostro Paese, pur senza minarne la secolare tradizione. Pensare fuori dagli schemi o, in questo caso, fuori dalla gabbia, è un processo faticoso, ma che ci rende quelli che siamo.

L'autore: Denis Pitter

Laureato in Comunicazione e Pubblicità a Trieste, mi trasferisco poi a Venezia, dove studio Design e Arti visive all’Università IUAV. Inizio a lavorare per una storica casa editrice veneziana e collaboro con altre realtà culturali del Triveneto. Nel 2015 frequento il master in Editoria di Fondazione Mondadori, Unimi e Aie. In seguito inizio a lavorare per case editrici milanesi come visual designer e traduttore.

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