Da una parte ci sono le dichiarazioni di guerra di Joe Biden – ma siamo in campagna elettorale – contro le big tech che non pagano le tasse e le pressioni, fortissime, dell’ala liberal del partito perché il candidato democratico si sfili dall’abbraccio della Silicon Valley. Dall’altra, una pioggia di milioni in finanziamenti e una rete significativa di collaboratori e advisor che mettono in dubbio la capacità di Biden di mantenere una «giusta» distanza dai monopolisti digitali. A pochi giorni dalle elezioni Usa, analisti e giornali americani si esercitano nel difficile tentativo di prevedere quale sarà il trattamento riservato da un’eventuale presidenza Biden ai big five del digitale (Google, Microsoft, Amazon, Facebook, Apple).
L’ex numero due di Barack Obama ha avuto parole molto dure soprattutto nei confronti di Amazon e, nel suo programma, c’è l’innalzamento della tassazione sulle aziende. «Amazon dovrebbe iniziare a pagare le proprie tasse» ha dichiarato il candidato in un’intervista dello scorso maggio. Il programma elettorale è costruito di conseguenza: Biden, che ha dichiarato che smonterà le riforme fiscali di Trump appena arriverà alla presidenza, vuole innalzare la «corporate tax» dal 21% al 28% (Trump l’aveva portata dal 35% al 21%) e ha aggiunto che intende introdurre una tassa minima sul fatturato pari al 15%, in modo che nessuna grande azienda possa arrivare a pagare in un anno una percentuale di tasse pari a zero.
Il riferimento implicito sarebbe proprio ad Amazon che, per effetto degli incentivi ricevuti soprattutto per la creazione di nuovi posti di lavoro, nel 2019 ha pagato tasse pari al 17% del fatturato, una percentuale che però tiene conto anche di tasse pagate all’estero e nei singoli Stati. A livello federale, ha pagato tasse pari all’1,2% del fatturato Usa. Nel 2017 e nel 2018, invece, per effetto di tax credit e deduzioni, Amazon aveva addirittura ricevuto un credito fiscale. Proprio perché Amazon – ma anche le altre big tech – sfruttando al meglio il sistema di incentivi fiscali paga regolarmente una percentuale di tasse inferiore al livello individuato dalla corporate tax, la prima parte della riforma fiscale annunciata potrebbe influenzare molto poco lo status quo. La seconda parte della riforma, cioè la tassa minima sui ricavi, potrebbe invece fare molto male ad Amazon ma molti analisti si dicono convinti che difficilmente entrerà in vigore in tempi brevi, soprattutto se a causa della pandemia gli Usa dovessero andare verso una nuova recessione che richiede politiche espansive, non certo restrittive.
L’altra grande questione sul tavolo riguarda le pratiche monopoliste messe in atto dai grandi player e che hanno portato le multinazionali Usa sul banco degli imputati a Bruxelles. Adesso però si muove anche Washington: il dipartimento di Giustizia Usa ha aperto una causa contro Alphabet (cioè Google) per monopolio e presto potrebbe toccare agli altri. Il Congresso – a maggioranza democratica – ha approvato un documento lo scorso 6 ottobre dove si accusano i big del digitale di mettere in pratica azioni che ostacolano la concorrenza e per Amazon, in particolare, il dito è puntato contro il Marketplace, dove verrebbero favoriti i prodotti venduti direttamente da Jeff Bezos. I democratici – senza l’assenso, su questo specifico punto, dei repubblicani – sono arrivati a ipotizzare quale estrema ratio la cessione obbligata di parte delle attività, uno «spezzatino» che gli Usa non vedevano forse dai tempi della Dell.
Tuttavia, un veloce sguardo alla lista dei finanziatori della campagna democratica fa dubitare che l’amministrazione Biden possa davvero segnare un cambio di passo. Quanto meno, diversi osservatori temono che la pioggia di soldi che sta piovendo sulla testa dei democratici sia un tentativo molto efficace di prevenire mosse negative. Un recente report di Wired stima pari a 4,8 milioni i finanziamenti alla campagna di Biden ricevuti da dipendenti delle aziende big tech, venti volte quelli per Trump. Sommando quanto raccolto attraverso i Pac e donato dai dipendenti, Reuters ha realizzato un grafico che attesta Amazon tra i primi cinque donatori per la campagna di Biden, in una classifica che vede Google saldamente al primo posto.
Poi ci sono le connessioni: Jay Carney, capo della comunicazione di Amazon, è stato tra i relatori di un convegno tenutosi in occasione della convention democratica. David Zapolsky, general counsel di Amazon, ha contribuito personalmente alla campagna di Biden con oltre 250 mila dollari, oltre a essere un «bundler» per i democratici, ovvero una persona incaricata di raccogliere soldi per la campagna, ruolo che talvolta viene ricompensato con incarichi dirigenziali all’interno dell’amministrazione.
Davvero Biden è nella posizione migliore per tagliare le unghie ad Amazon e agli altri grandi colossi del digitale? Reuters lo ha chiesto a Sally Hubbard, oggi impegnata all’Open Market Institute e, in passato, consulente per i democratici. Barack Obama è stato largamente considerato un presidente che non ha voluto intervenire sul potere delle big tech. «Assisteremo alla stessa cosa con l’amministrazione Biden?» si chiede adesso Hubbard, aggiungendo che l’ala più radicale del partito e i gruppi anti-monopolisti sono pronti a esercitare una grandissima pressione sulla futura amministrazione. Con quale efficacia, lo vedremo qualora Biden davvero arrivi alla Casa Bianca.
Sono nato a Genova e vivo a Milano. Giornalista, già addetto stampa di Marsilio editori e oggi di AIE, ho scritto per Il Secolo XIX, La Stampa, Internazionale, Domani, Pagina99, Wired, Style, Lettera43, The Vision. Ho pubblicato «Figli dell’arcobaleno» per Donzelli editore. Quando non scrivo, leggo. O nuoto.
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