Nelle scorse settimane si è tornati a parlare dei «troppi libri pubblicati dalle case editrici» italiane, anche per un articolo di Bruno Ventavoli uscito su La Stampa del 23 settembre: «L’incubo per chi coordina le pagine culturali di un giornale inizia la mattina presto. […] Mail, sms, telefonate [da parte delle] colleghe degli uffici stampa che propongono i nuovi libri […] Decine di richieste ogni giorno. Peccato che la maggior parte non abbiano la minima possibilità di essere recensiti. Non perché non siano belli, stimolanti, incuriosenti. Ma semplicemente perché sono troppi».
 
Quello della sovrapproduzione editoriale è un tema che periodicamente riemerge, sulle pagine dei giornali, ma anche come discorso sulle bocche degli addetti ai lavori, degli editori, dei librai.
 
La serie storica è in grado di mettere in evidenza più di tante parole cosa è successo.
Una premessa necessaria riguardo il brusco calo tra 1997 e 2010: a partire da quest’anno abbiamo iniziato a usare i dati di IE-Informazioni editoriali che considera i titoli inseriti dalle case editrici nella banca dati dei titoli in commercio. Si tratta di un dato più puntuale rispetto a quello ottenuto tramite le (auto)dichiarazioni degli editori raccolte da Istat, dal momento che una pubblicazione per poter essere venduta (sia nel negozio fisico che online) deve essere necessariamente caricata sulla banca dati. Istat ha inoltre progressivamente perso il polso della situazione: i dati annuali sono fermi al 2016 (ma seguono comunque un trend di crescita: nel 2016 sarebbero 56.529) e il numero di case editrici che vengono considerate sono 2.063 rispetto alle 4.902 di IE.



E in ogni caso l’affermazione secondo cui i libri pubblicati «sono troppi» corrisponde poco alla realtà, non in termini assoluti. Guardando ai mercati internazionali, la Francia nel 2017 pubblica 104 mila titoli, la Germania 72.499, la Spagna 87.262, il Regno Unito 173.000 (2015, IPA).
Con una avvertenza. I mercati linguistici di tutti questi Paesi non coincidono con quelli politici: una parte dei titoli – in che misura non lo sappiamo – sono destinati fin dalla prima pubblicazione ad altri mercati che ne condividono la lingua. Negli Stati Uniti si pubblicano 339 mila titoli (contro i 590 mila in Europa; fonte: FEP) a cui ne dovremmo aggiungere 1 milione di autopubblicati (fonte: Bowker, 2018).
 
Più che sui dati della produzione, potrebbe essere più utile concentrarci su un altro spunto che Ventavoli pone: «Perché in un Paese dove pochi leggono, ancor meno comprano, si stampa così tanto?». Cioè vale la pena interrogarsi su cosa ci sia dietro alla crescita della produzione di libri, sui processi – tecnologici, di consumo e industriali – che hanno innegabilmente portato a questi numeri in un arco relativamente breve di anni. Una crescita che riguarda anche altri Paesi, va precisato.
 
Premesso che è difficile immaginare di poter indicare a un’impresa quanti (e quali) libri pubblicare, nessuna editoria cresce riducendo il numero di titoli che pubblica. I «tanti titoli» pubblicati sono forse un indicatore di altro.
 
Ad esempio se 5 milioni di lettori forti (il 18%) generano un volume d’acquisto pari a 54 milioni di copie (il 45%) significa che c’è una parte del pubblico che vuole titoli tutt’altro che mass market. La piccola editoria trova linfa anche da qui, dalla richiesta di una certa tipologia di titoli.
 
Va anche sgomberato il campo da un equivoco che circola negli articoli sulla sovrapproduzione editoriale: i grandi gruppi editoriali – tutti assieme – e le grandi case editrici contribuiscono a  questa produzione di 70 mila titoli soltanto per circa un 17%.
 
Ma cosa è avvenuto in questi anni?
 
Sono scomparse molte delle barriere che rendevano oneroso l’accesso editoriale al mercato. Oggi è infinitamente più facile e meno costoso trovare i titoli da pubblicare (anche di qualità beninteso) grazie a un più puntuale scouting editoriale, alla presenza di aree diritti nelle principali fiere anche non specialistiche, alla creazione sui siti di aree dedicate. I programmi di impaginazione e di grafica sono diventati maggiormente alla portata di tutti, senza per forza dover ricorrere a studi specializzati. La stampa digitale permette di scegliere tirature piccole, di poche centinaia di copie, permettendo di non immobilizzare eccessivi capitali nei magazzini. La comunicazione è diventata più diretta e viene gestita anche tramite le pagine social e il sito della casa editrice.
 
La soglia – la vera soglia d’ingresso – si è spostata molto più a valle verso la distribuzione e la promozione. È lo spazio che questa produzione deve guadagnarsi sui banchi e sugli scaffali del libraio. O nella pagina del quotidiano, o in un blog.
 
Il rischio che vedo è quello di continuare a guardare a questo processo attraverso i vecchi paradigmi che hanno improntato la filiera dal secolo scorso in poi. Se la produzione di titoli non diminuirà (e sono convinto che sarà così) non si dovrà invece cercare di ripensare in modo diverso a tutti questi processi distributivi, logistici, informativi della promozione verso la libreria e verso il lettore?
 
L’editore – ma anche tutti gli attori della filiera in realtà – non dovrebbe imparare a usare e a comprendere il valore che hanno i numeri nelle loro scelte editoriali? Non sarebbe utile imparare a gestire meglio i big data che arrivano all’editore dai canali di vendita in tempo quasi reale e con un grado di dettaglio mai avuto prima?
 
Se il giornalista dovrebbe, come dice Stefano Mauri – nel dibattito che è seguito all’intervento di Ventavoli –, «aiutare il lettore a scegliere» e, come sottolinea anche Giuseppe Laterza, «il lavoro della redazione culturale di un grande giornale è assai utile per dare al lettore una chiave di selezione»  («La Stampa», 24 settembre, p. 13), è anche vero che una prima selezione, una  gerarchia si impone anche per l’editore non solo nel scegliere cosa pubblicare, ma nel sapersi creare una gerarchia di importanza all’interno del proprio catalogo. L’editore deve diventare rapido nel cogliere quello che avviene nella vendita dei suoi titoli e quelli concorrenti, imparare a calibrare il proprio impegno per ogni titolo, attraverso la promozione alle librerie e la comunicazione  alle redazioni culturali dei giornali.
 
Gli strumenti per farlo oggi ci sono. Dobbiamo fare in modo che anche chi produce l’83% di quei 70 mila titoli pubblicati, avverta l’indispensabilità di usarli e di cambiare il modo in cui ha gestito fino a oggi il processo distributivo, promozionale, logistico e il rapporto con la libreria e il lettore.

L'autore: Giovanni Peresson

Mi sono sempre occupato di questo mondo. Di editori piccoli e grandi, di libri, di librerie, e di lettori. Spesso anche di quello che stava ai loro confini e a volte anche molto oltre. Di relazioni tra imprese come tra clienti: di chi dava valore a cosa. Di come i valori cambiavano in questi scambi. Perché e come si compra. Perché si entra proprio in quel negozio e si compra proprio quel libro. Del modo e dei luoghi del leggere. Se quello di oggi è ancora «leggere». Di come le liturgie cambiano rimanendo uguali, di come rimanendo uguali sono cambiate. Ormai ho raggiunto l'età per voltarmi indietro e vedere cosa è mutato. Cosa fare da grande non l'ho ancora perfettamente deciso. Diciamo che ho qualche idea. Viaggiare, anche se adesso è un po' complicato. Intanto continuo a dirigere l'Ufficio studi dell'Associazione editori pensando che il Giornale della libreria ne sia parte, perché credo sempre meno nei numeri e più alle storie che si possono raccontare dalle pagine di un periodico e nell'antropologia dei comportamenti che si possono osservare.

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