Negli ultimi anni – facendo perno sulla rete e sulle possibilità d’interazione e di collaborazione da essa agevolate – sono nate nuove categorie di servizi e si è progressivamente sviluppato
un modo diverso di concepire i prodotti, la loro commercializzazione e le modalità di fruizione a essi associate.
Nel passaggio dal possesso alla condivisione, che ha caratterizzato gran parte di questi cambiamenti, da un lato si sono sviluppati differenti modelli di business, dall’altro si è profondamente modificato il comportamento del consumatore, la sua stessa natura di utente.
Il
Pew Research Center ha recentemente pubblicato
i risultati del primo studio globale condotto sull’impatto che il nuovo corso dell’economia digitale sta avendo sulle abitudini del popolo americano.
La new digital economy ha come fulcro le piattaforme web o mobile: che consentono di accedere on demand a contenuti, che permettono di commercializzare prodotti e competenze secondo le logiche del consumo collaborativo, o – ancora – che connettono comunità d’interesse altrimenti disperse con l’obiettivo di attivare processi aperti di problem solving.
Il sondaggio nazionale del Pew è stato condotto su
un campione di 4.787 americani, portando alla conclusione che l’approccio a questi servizi varia significativamente all’interno del Paese.
In totale,
il 72% della popolazione adulta si sarebbe servito, nell’ultimo anno, almeno una volta di una piattaforma – «collaborativa» o on demand – afferente a una delle 11 categorie individuate dallo studio (dall’
home-sharing al
food delivery, passando per il
co-working e il
fundraising).
Percentuali non eclatanti ma significative, poi, mostrano di aver incorporato all’interno delle proprie routine queste tipologie di consumi: un americano su 5, per esempio, dichiara di aver usato più di quattro di questi servizi nell’ultimo anno, mentre
il 7% afferma di averne utilizzati più di 6.
D’altro canto, circa un quarto degli intervistati (28%) non ha mai avuto modo di servirsi di piattaforme di sharing o di servizi on demand e molti non hanno familiarità neppure teorica con gli strumenti e il vocabolario della nuova economia digitale. Il 15% ha usato app per l’hail and ride come Uber, per esempio, ma circa il doppio non sa neanche di cosa si tratti. Similmente, l’11% ha cercato da dormire attraverso piattaforme per l’home-sharing come Airbnb, ma circa la metà degli intervistati non ha neppure mai sentito parlare di siti web che offrono servizi simili.
Il termine «crowdfunding» è sconosciuto per il 61% degli americani, il 73% non ha confidenza con l’espressione «sharing economy» e l’89% non ha idea di cosa significhi «gig economy». E, vista la percentuale vertiginosa, vale forse la pena spiegarlo anche qui: con «gig economy» si intende un modello economico nel quale non esistono più contratti di lavoro continuativi, ma solo prestazioni on demand quando c’è richiesta di specifici prodotti o competenze. Domanda e offerta vengono aggregate on line attraverso piattaforme e applicazioni dedicate.
In ogni caso, gli utenti della new digital economy hanno caratteristiche socio-demografiche molto precise: il 39% di loro è laureato; il 41% di quelli che hanno utilizzato 4 o più servizi ha un reddito annuo di oltre 100 mila dollari; un terzo degli utenti ha un’età compresa tra i 18 e i 44 anni. Al contrario, il 44% degli ultracinquantenni e il 56% degli over 65 non ha mai utilizzato nessuna delle 11 categorie di servizi prese in considerazione dall’intervista.
Dal 2010 mi occupo della creazione di contenuti digitali, dal 2015 lo faccio in AIE dove oggi coordino il Giornale della libreria, testata web e periodico in carta. Laureata in Relazioni internazionali e specializzata in Comunicazione pubblica alla Luiss Guido Carli di Roma, ho conseguito il master in Editoria di Unimi, AIE e Fondazione Mondadori. Molti dei miei interessi coincidono con i miei ambiti di ricerca e di lavoro: editoria, libri, podcast, narrazioni su più piattaforme e cultura digitale. La mia cosa preferita è il mare.
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